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Il lavoro diventa più flessibile

La cosiddetta riforma "Biagi" verso il decreto attuativo della legge delega. Come cambia il lavoro in Italia: i punti chiave, le premesse e le prospettive.

Il Consiglio dei Ministri ha approvato gli 86 articoli che compongono lo schema di decreto legislativo che deve dare attuazione alla cosiddetta legge "Biagi" varata nel febbraio scorso, un provvedimento che contiene tante importanti novità per il mercato del lavoro: completa innanzitutto il processo di privatizzazione del collocamento e crea, aprendo all'informatizzazione dei servizi, le condizioni per offrire a chi cerca lavoro un sistema di informazioni e di servizi finalmente integrato ed al passo con i tempi (si veda la sintesi nel box).
La portata maggiore della riforma sta però nei nuovi modelli di contratto, nelle nuove forme di lavoro che vengono introdotte come novità assoluta. Il vecchio contratto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato non sarà più l'unica possibile forma di lavoro nell'impresa.
Si potranno avere dei contratti di lavoro intermittente, di lavoro ripartito; cambierà il volto delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative (le cosiddette co.co.co) che saranno, domani, i nuovi lavori a progetto. Cambierà tutta la disciplina della somministrazione di lavoro ed al lavoro interinale si affiancherà lo staff leasing.
Tuttavia, dovremo aspettare ancora per vedere davvero cosa accadrà con la riforma, poiché la bozza del decreto legislativo dovrà essere oggetto di un confronto con le parti sociali e, solo successivamente, dopo l'esame delle Commissioni parlamentari competenti, sarà varato definitivamente dal Governo.
Sarà davvero capace questa riforma di introdurre flessibilità nel mercato del lavoro? Di aumentare il tasso di occupazione? Di ridurre le forme contrattuali precarie e di lavoro sommerso? Sarà davvero possibile anche per le imprese italiane disporre di una strumentazione composta da contratti di lavoro moderni e flessibili?
Le attese e le aspettative sono forti e non possono essere vanificate. Ce lo chiede la competitività globale dei mercati, ce lo impone la necessità di accrescere il tasso di occupazione e di sostenere il nostro sistema di welfare.
Occorre però far sì che, nel tradurre i principi della legge nel decreto di attuazione, non vada perduto lo spirito della riforma, il senso di marcia che si voleva imprimere al nostro mondo del lavoro. Noi siamo un paese abituato ai compromessi ma, su queste questioni, il compromesso può essere davvero un danno grave.
Se si decide di fare delle riforme bisogna avere il coraggio di farle fino in fondo, con chiarezza. Bisogna enunciare le intenzioni, darsi un tempo ed un metodo per ricercare il massimo consenso possibile, ma poi darvi corso. Non basta evocare Marco Biagi per fare le riforme. E non si possono fare riforme di questa portata, su questi temi, cercando di tenere insieme tutto ed il contrario di tutto. Si possono fare esempi a sostegno di questo ragionamento: alcuni per cogliere evidenti contraddizioni nel complessivo processo di attuazione della riforma, altri per evidenziare le ambiguità di fondo di un progetto che, di fatto, non marca una precisa linea di confine fra la legge e la contrattazione collettiva.
Con la scomparsa delle co.co.co, il Governo vuole completare quel suo progetto diretto, da un lato, a fare emergere il lavoro nero e, dell'altro, a smascherare tutti quei rapporti ritenuti elusivi della disciplina del lavoro subordinato. L'intento è certamente condivisibile ma il risultato della riforma che è il cosiddetto "lavoro a progetto", rischia, paradossalmente, di non perseguire né l'uno, né l'altro scopo penalizzando, nel contempo, quelle collaborazioni che davvero si collocano in un ambito intermedio tra il lavoro autonomo e quello subordinato.
Insomma, il lavoro a progetto sembra un abito troppo stretto per contenere tutte quelle nuove forme di collaborazione che, pur non configurando il lavoro subordinato, non sono peraltro tali da dover essere automaticamente ricondotte al lavoro autonomo. E' insomma mancato il coraggio di dare una disciplina autonoma alla "parasubordinazione".
Un'altra novità assoluta della legge "Biagi", è l'introduzione della certificazione, un istituto del tutto inedito per il nostro ordinamento giuridico che affida a delle commissioni - costituite in vari ambiti, sia privati, sia pubblici - il compito di certificare la natura dei rapporti contrattuali. Anche in questo caso l'obiettivo è lodevole: dare certezza di regole e deflazionare il contenzioso giudiziario. Restano, tuttavia, non poche perplessità sulle soluzioni adottate che rischiano di generare inutili appesantimenti procedurali senza, comunque, risolvere la questione di fondo, che rimane quella dell'assoluta ed insindacabile titolarità del giudice di pronunciarsi anche contraddicendo completamente l'esito della certificazione. Quella della certificazione rischia di diventare, pertanto, più un'operazione di facciata che un serio tentativo di risolvere un problema. Da ultimo una considerazione sui tanti (forse troppi) rinvii alla contrattazione collettiva che la bozza di decreto attuativo contiene. Infatti, la legge "Biagi" sembrava promettere al mondo del lavoro molti innovativi strumenti contrattuali, molte forme di flessibilità, molte opportunità di privilegiare il rapporto individuale del lavoro. Lo schema del decreto legislativo rischia di vanificare buona parte di queste promesse.
Le imprese, infatti, non potranno utilizzare appieno questi strumenti a prescindere dalle intese sindacali. In più parti il provvedimento di legge rimanda, infatti, necessariamente alla contrattazione collettiva. In questo contesto - dove per le imprese sono considerate "flessibilità" quelle forme di lavoro e di organizzazione che il sindacato definisce invece "deprecabili precarietà" - cosa resterà della riforma Biagi?
E' un interrogativo che rimanda allo stato di salute delle nostre relazioni industriali, al grado di condivisione che esiste su un progetto di riforma del nostro mercato del lavoro, ma soprattutto che impone alle parti sociali l'imperativo assoluto di perseguire con coraggio e determinazione l'obiettivo di fare, con i contratti collettivi, le riforma che il legislatore ha prefigurato.
C'è da augurarsi che "l'intesa per la competitività" segni l'avvio di una nuova stagione delle relazioni sindacali, meno ideologica, meno legata alle logiche del mero scambio, insomma, una stagione che, pur garantendo piena autonomia alle parti, restituisca un significato positivo alle cose fatte insieme.

La legge "Biagi" in sintesi
Le principali novità introdotte dalla legge "Biagi" (una legge delega, che per poter avere pratica applicazione richiede l'emanazione di un decreto attuativo) riguardano i nuovi modelli di contratto di lavoro che, allo scopo di introdurre forme di lavoro flessibile, affiancano il tradizionale strumento del contratto a tempo indeterminato. Si tratta, in particolare, del job on call (lavoro a chiamata in funzione delle esigenze produttive verso il pagamento di una indennità "di disponibilità"), job sharing (condivisione di un'unica posizione lavorativa da parte di due lavoratori), staff leasing (impiego di lavoratori a tempo indeterminato inviati da agenzie specializzate). Se queste sono le novità di maggiore rilievo contenute nella legge, ispirata al libro bianco cui lavorò il professor Marco Biagi, vanno poi ricordate anche l'ulteriore liberalizzazione del collocamento (che potrà essere gestito anche da soggetti privati appositamente autorizzati) e una più puntuale regolamentazione dell'outsourcing e dei trasferimenti di ramo d'azienda.
Per quanto riguarda il part-time, dovrebbe diventare più facile ricorrere al lavoro supplementare nel part-time orizzontale (orario ridotto nella singola giornata) ed organizzare in modo più elastico il part-time verticale (orario ridotto su base settimanale o mensile).
Questi i principi fissati dalla legge delega: ora, occorrerà vedere che cosa verrà scritto nel decreto attuativo e che cos'altro risulterà dalla negoziazione tra le parti sociale per quegli aspetti la cui applicazione è demandata alla contrattazione collettiva.

06/26/2003

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