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La formazione scolastica in Italia

Adriano De Maio, già rettore del Politecnico di Milano e della Luiss di Roma, attuale delegato del presidente della Regione Lombardia per Alta formazione, ricerca e innovazione, traccia una valutazione della formazione nelle scuole italiane.

Adriano De MaioE' diventato ormai quasi un luogo comune affermare sui giornali, in conferenze ed in dibattiti che avvengono nelle più svariate occasioni, che l'aspetto principale su cui, in questo mondo sempre più globalizzato, ciascun paese "avanzato" si troverà a competere è l'innovazione e la ricerca.
Addirittura l'Unione Europea ha deciso di "sfidare il mondo" proponendosi come "società della conoscenza". Si compilano perciò classifiche relative al posizionamento di ciascun paese riguardo alla competitività innovativa, attraverso, ad esempio, la valutazione della percentuale di investimenti in Ricerca e Sviluppo rispetto al PIL. In tutte queste classifiche, pur con tutte le cautele del caso che si devono avere quando si tenta di riassumere in un "voto" numerico una serie di valutazioni anche qualitative, l'Italia non ne esce molto bene.
Ma anche la valutazione sul sistema formativo nel suo complesso non è positiva, e sta peggiorando sempre di più, come dimostra ad esempio l'ultima indagine sul livello di preparazione degli studenti delle scuole pre-universitarie (PISA).
Questo, a mio avviso, è il segnale più preoccupante, perché, potrebbe sembrare paradossale, il problema non consiste tanto nella carenza di investimenti, quanto piuttosto nel fatto che se non vi sono le persone adatte, vuoi come conoscenze vuoi come comportamenti, il denaro non supplisce a queste carenze. Se quindi, nel complessivo processo dell'innovazione, il punto chiave è rappresentato dalla qualità (e quantità) delle persone disponibili, l'attenzione maggiore va concentrata proprio sulla filiera formativa.
I due aspetti che devono allora essere considerati come prioritari riguardano da un lato i "contenuti", cioè, in termini più ampi, l'intero progetto formativo e, dall'altro lato, chi opera nel processo, cioè i formatori, gli insegnanti. Partiamo da questi, con una semplice constatazione: se in qualsiasi processo produttivo (nel nostro caso l'innovazione) una "fase" del processo è la più critica in quanto determina la qualità del prodotto finale (nel nostro caso la formazione dei ragazzi, dalla prima elementare), allora chi opera in questa fase (gli insegnanti, nel nostro caso) devono essere i "migliori" e perciò selezionati, valutati, retribuiti in modo adeguato. E' questo il caso del nostro corpo insegnante?
A me sembra proprio di no. Sono scarsamente selezionati (ogni tanto c'è l'imbarcata di precari!
Ai vari ministri che si succedono l'unica cosa importante sembra essere la copertura delle cattedre, non il modo con cui sono "coperte"!), non sono affatto valutati in quanto la progressione stipendiale è solo per anzianità e sono inadeguatamente retribuiti.
Dopo la laurea soltanto una piccola minoranza fra i più bravi sceglie di andare ad insegnare, a meno di coloro che ritengono che convenga avere poco perché si dà poco: questo, fra l'altro, è un aspetto deteriore della femminilizzazione della scuola.
Al contrario: meno insegnanti, molto ben selezionati, accuratamente valutati e adeguatamente pagati; questa sì che sarebbe una vera rivoluzione rispetto agli ultimi quaranta anni! Un breve cenno sui programmi, adesso. Uno degli elementi di forza che avevamo, ed era ampiamente riconosciuto era legato ad una ampia e ricca formazione di base, indipendentemente dalla articolazione del ciclo formativo: se vogliamo darne un esempio semplice, era l'attenzione alle materie cosiddette umanistiche per tutti, ad esempio anche i periti industriali avevano fatto le scuole medie con tre anni di latino, senza parlare di italiano, storia, geografia etc.
Questo ci permetteva di differenziare la formazione senza creare differenze di "classe".
Grande errore fu confondere la necessità di aumentare per tutti il numero di anni di frequenza nella scuola con il proporre un percorso formativo unico.
Nella formazione noi dobbiamo "proteggere i talenti", oltrechè i più deboli, e questo richiede un'attenzione differenziata.
Storicamente poi dedicavamo una estrema attenzione al metodo prima ancora del contenuto ed in questo caso la matematica ed il latino sono fra gli insegnamenti più formativi.
E' interessante constatare che proprio adesso due caratteristiche sono richieste per essere competitivi: da un lato la capacità di gestire sistemi complessi, che necessita una ampia formazione di base non specialistica e, dall'altro lato, una forte preparazione sul metodo perché i "contenuti" variano con una velocità difficilmente immaginabile qualche tempo fa.
Un'ultima breve considerazione, che meriterebbe ben più ampio spazio: nella scuola si è cessato di valutare gli studenti: con questo abbiamo abolito la meritocrazia, il senso di responsabilità, lo stimolo alla curiosità, il gusto di un miglioramento continuo: tutto ciò porta ad un comportamento il più lontano possibile dall'imprenditorialità e dall'innovazione.
Proprio per la nostra storia abbiamo ancora (per quanto?) la tradizione culturale che ci permetterebbe di primeggiare.
Sarebbe opportuno che, finalmente, ce ne rendessimo conto e che, infine, decidessimo di intervenire con decisione e con forza.

Un umanesimo tecnologico

Negli istituti tecnici si coltiva e si sviluppa l'umanesimo tecnologico, che sul piano pedagogico ha la stessa dignità dell'umanesimo scientifico e di quello letterario. Il testo di Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, docente di Politiche, Legislazione e Organizzazione Scolastica alla S.S.I.S dell'università Cà Foscari di Venezia, grazie al contributo di specialisti, presidi e pedagogisti, affronta il tema dell'identità dell'istruzione tecnica, del suo passato e del suo futuro.

02/22/2008

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