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Passaggio generazionale: la staffetta vince in azienda

Un sondaggio realizzato presso le imprese associate all'Unione Industriali rivela un quadro piuttosto positivo del passaggio generazionale padre-figlio in azienda: un passaggio che per lo più porta con se' miglioramenti alla vita d'impresa (e familiare).


Qualcosa di più di un passaggio di testimone, di una staffetta o di un giro di boa: nessuna di queste immagini, infatti, riesce a tradurre efficacemente tutti gli aspetti che sono coinvolti quando una azienda familiare passa dalle mani del padre a quelle di un figlio o di un altro membro della famiglia.
Un passaggio che nel Varesotto, vista la ben radicata vocazione industriale, si è spesso già compiuto ma che riguarda comunque ancora sia le aziende oramai storiche, che sono passate dalle mani di due o tre generazioni, che quelle datate anni '70 e che si trovano ora in prossimità del loro primo passaggio. Il tema della successione nell'azienda di famiglia è stato anche oggetto, nel 2001, di un'Assemblea del Gruppo Giovani Imprenditori dell'Unione Industriali della Provincia di Varese. Obiettivo? Mettere in luce, accanto agli innumerevoli ostacoli di natura familiare, sociale e di mercato, anche la valenza strategica del passaggio generazionale nello sviluppo aziendale.
La realtà, a livello nazionale, ci mette di fronte a un quadro abbastanza chiaro che dà l'idea di quello che sta succedendo. In Italia oltre la metà delle imprese (58%) sono controllate da una famiglia, il 24% da persona fisica, mentre il 39% della capitalizzazione della borsa di Milano è rappresentato da aziende familiari. Gli affari di famiglia, in altre parole, sono un tratto distintivo del nostro tessuto produttivo: tuttavia, secondo una recente indagine dalla Banca d'Italia 6 imprese su 10 saranno coinvolte nei prossimi 5 anni nel delicato passaggio generazionale.
I numeri dicono anche però un'altra cosa: solo il 30% delle imprese di famiglia riesce ad arrivare alla seconda generazione ed il drappello di quelle che arrivano alla terza generazione si assottiglia ancor di più.
A conferma di ciò ci sono i riscontri compiuti negli ultimi 4 anni (fonte Asam Università Cattolica). In questo periodo sono in crescita sia il numero di imprese familiari cedute (più 13%) che la propensione a chiudere i battenti (più 16%) oppure a cedere quote di controllo al private equity (più 8%), facendo così entrare in scena nuovi soggetti imprenditoriali.
I dati dimostrano insomma che i capitani d'impresa invecchiano e con loro invecchiano anche le aziende. Non solo, ma nel passaggio di mano vi è anche il rischio che la famiglia perda le redini o addirittura che si vada alla chiusura totale dell'attività: la cronaca è ricca di esempi che riguardano per lo più imprese anche di un certo livello coinvolte in passaggi che a volte sono di successo e altre no.
Ma cosa accade nelle aziende del nostro territorio? Come si affronta questa delicata fase e, soprattutto, con quali risultati? Da un'indagine condotta dall'Unione degli Industriali alla quale hanno risposto 119 aziende del Varesotto si possono trarre alcune indicazioni a proposito che mettono in evidenza almeno due aspetti interessanti: il prevalere di lunghi periodi di affiancamento tra padre e figlio e l'emergere di molti aspetti positivi, in termini di miglioramento aziendale, portati proprio dall'avvicendamento alla guida dell'impresa. La fotografia, scattata come detto attraverso un'indagine - questionario inviata nei mesi scorsi ed elaborata nel dicembre del 2005, permette però anche di trarre altri diversi spunti di riflessione anche se chi ha risposto non ha sempre dato indicazioni per tutti i quesiti posti: ed è per questo che i totali variano di volta in volta.
Dalle indicazioni fornite si evidenzia, ad esempio, che ai figli di imprenditori il futuro in azienda non sembra affatto dispiacere (sono entrati nella ditta paterna 87 figli su 93), mentre è piuttosto esiguo il numero di coloro i quali hanno fatto in po' di gavetta alle dipendenze di altri "padroni" (17 su 95).
Innanzitutto per la quasi totalità di coloro i quali hanno risposto al questionario il passaggio generazionale è già avvenuto: su 119 risposte le aziende ancora in mano al fondatore sono solamente 9, mentre tutte le altre sono già alla seconda (57 aziende) o terza generazione (25 imprese) e addirittura per alcune si tratta della quarta generazione (17 casi). Infine, in una decina di casi, gli intervistati hanno dichiarato di aver acquisito le attività da una ex famiglia di imprenditori che, evidentemente, non è riuscita a trovare al suo interno la risorsa in grado di continuare l'attività.
Questo dato si collega in qualche modo all'età anagrafica dei capostipiti, e al boom imprenditoriale degli anni '50 e '60: le attività fiorite nel Varesotto in quegli anni sono già giunte alla loro maturità e al bisogno di ricambio, una fase della vita delle aziende che si colloca statisticamente tra i 28 e i 38 anni di vita dell'azienda stessa. E così in corrispondenza delle imprese della seconda generazione, che sono anche il gruppo più nutrito, troviamo anni di fondazione che risalgono per lo più all'immediato decennio del dopoguerra, fino ad arrivare ai primi anni '60.
In pratica ciò significa che ora il passaggio tocca alle imprese nate agli albori degli anni '70 e fino alla fine di quel decennio: i fondatori si avvicinano o superano oramai i 65 anni di età ed i figli sono spesso oramai pronti, dal punto di vista anagrafico, a mettersi sulle orme del padre.
Ma non sempre o non solo sono i figli a prendere le redini dell'attività anche se, dall'indagine compiuta, è questa l'ipotesi che ha maggiore frequenza. E così, ad esempio, su 107 risposte in ben 82 casi a prevalere è stata la continuità da genitori a figli, mentre in altri 18 contesti aziendali il passaggio ha coinvolto la famiglia allargata, vale a dire fratelli nipoti o cognati. Nei restanti casi si è optato per la cessione ad estranei (4 casi), per l'affiancamento di manager giovani entrati in azienda (2 casi) o per la cessione di quote sociali a soggetti estranei alla famiglia (1 caso).
Comunque ai figli l'idea di entrare nell'azienda paterna non dispiace affatto: basti pensare che ben 87 figli su 93 risposte giunte a questo proposito hanno detto sì all'impresa di famiglia e solo 6 hanno scelto altre strade.
A colpire sono però i dati che riguardano gli anni di affiancamento per il passaggio generazionale, un periodo che, nella quasi totalità dei casi è piuttosto prolungato: solo in pochi casi, infatti, si parla di un interregno padre-figlio di un anno o meno, mentre per la maggior parte si dichiara una convivenza di 10 o 20 anni o, in alcune situazioni, si parla di affiancamento continuo. Un segnale questo piuttosto positivo dal momento che indica un passaggio graduale, meno traumatico e in grado di assorbire in modo "fisiologico" il fondersi tra il vecchio e il nuovo e gli eventuali elementi di novità.
Pochi sono però, di contro, i figli di imprenditori che hanno svolto esperienze altrove rispetto alla ditta di famiglia: solo 17 su 95 hanno deciso di provare a lavorare altrove. Tuttavia in questi casi si è trattato sempre di esperienze di almeno due o tre anni o anche di più e che possono essere sicuramente un utile bagaglio da portarsi poi dietro quando si entra in azienda. Infine alle novità è stata dedicata una apposita sezione dell'indagine, volta a mettere in evidenza quale è stato il principale cambiamento introdotto in azienda con il passaggio generazionale. In questo caso le risposte date dagli imprenditori sono state ovviamente assai differenti, ma tutte di segno positivo. Ecco allora che si parla di modernizzazione della gestione aziendale, di aggiornamento tecnologico e di riposizionamento commerciale, di maggiore attenzione verso i servizi proposti ai clienti, di alleggerimento della struttura e dei costi, di una visione più manageriale, di nuovi prodotti e nuovi mercati e di politiche di espansione dei mercati. In oltre la metà dei casi si è riscontrata una diversa prospettiva strategica e organizzativa tra figli a genitori per quanto riguarda il posizionamento dell'azienda nel mercato. Tutto sommato, insomma, il passaggio, almeno in provincia di Varese, sembra essere stato non solo digerito bene, ma anche vissuto come momento di crescita e di miglioramento per l'azienda stessa.

Ma quanto affiancamento!
Il sociologo Giuseppe De Rita, Direttore del Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, cui abbiamo chiesto un commento alla nostra inchiesta, evidenzia alcune problematiche legate al passaggio generazionale.

Giuseppe De RitaIl passaggio generazionale in azienda non sembra avere in provincia di Varese particolari complicazioni. Qual è la sua lettura dei dati?
"L'inchiesta realizzata sul territorio varesino rivela che il sistema del ricambio generazionale qui non è certo un problema. I dati indicanti che quasi il 50% delle imprese è di seconda generazione e che il passaggio avviene quasi sempre in linea diretta padre-figlio, oltre al fatto che solo pochissimi giovani fanno esperienze in imprese esterne alla famiglia, rivelano subito che la situazione è piuttosto tranquilla. C'è una sorta di meccanismo di autogenerazione, per cui tutto si sviluppa all'interno della stessa famiglia. Ma le risposte rivelano anche alcuni punti di "problematicità" che andrebbero approfonditi e che meriterebbero una certa attenzione e un approfondimento.
In primo luogo il fatto che circa il 40% degli intervistati abbia sottolineato una diversità di visione strategica tra figli e genitori. In seconda battuta la durata dell'affiancamento padre-figlio, che è davvero molto lunga. La maggior parte segnala addirittura una durata di 20 anni".
La diversità di visione strategica non può rivelarsi un fattore di crescita?
"Sicuramente può costituire un valore aggiunto, ma può anche rappresentare un limite. Dalla diversità si può arrivare al miglioramento ma non è escluso che questo fenomeno, insieme al lungo affiancamento, possa rivelarsi sfibrante per i giovani. E, non ultimo, ingenerare insofferenza a continuare sulla linea del padre, come accade in diversi casi in cui i giovani, finalmente arrivati a condurre l'impresa, stravolgono l'attività aziendale con risultati spesso fallimentari. E' chiaro, invece, che se si lascia prima il figlio solo in azienda, è più "vitale".
D'altro canto, anche questo fenomeno del lungo affiancamento è fisiologico, in linea con la solidità di un contesto che comunque funziona: stiamo parlando di imprese che si tramandano senza grosse problematiche o scossoni".
Un altro aspetto può sembrare problematico. I giovani per lo più non fanno esperienze al di fuori dell'azienda di famiglia. E' un limite?
"Assolutamente non si tratta di un problema. In particolare, per le imprese che hanno una produzione di nicchia, sarebbe inutile mandare i figli a ricercare un know how di sistema diverso da quello specificamente richiesto in azienda".

Investire in educazione
Come favorire il passaggio generazionale in azienda? Lo abbiamo chiesto a Paolo Crepet, psicologo, psichiatra e scrittore.

"I genitori non possono ritenersi soddisfatti per il semplice fatto che i figli accettino di prendere le redini dell'azienda. Questo non basta. Nei decenni scorsi, il mercato nel nostro paese è rimasto a lungo in una fase di espansione: questa circostanza ha abituato molti degli attuali giovani a pensare in automatico che così sarà ancora in futuro. Invece così non è e non sarà. Lo vediamo, quanti punti stiamo perdendo di fronte ai concorrenti che stanno nei paesi di nuova industrializzazione. E vediamo come, in questo scenario, cresca la tentazione di "fare i furbetti", di arricchirsi con l'effimero, con le speculazioni finanziarie, anziché pensare ad un modo nuovo di fare impresa nel settore produttivo. Ciò che i genitori possono allora fare per aiutare i figli che li sostituiranno nell'impresa di famiglia è investire in educazione".
Educazione significa qualcosa di diverso o di più rispetto alla semplice formazione?
"Ci sono molte indicazioni che denotano come i criteri formativi delle nuove generazioni siano molto deboli rispetto a quelli precedenti o comunque molto più inadeguati rispetto alla domanda. Ma, effettivamente, non si tratta solo di formazione in senso stretto, bensì di educazione, cioè di orientamento ad un sistema di valori. Ci vuole, da parte dei genitori, un'educazione alla serietà, all'impegno, all'idea che niente si ottiene se non ci si sforza di fare e di dare il meglio di sé. Occorre spingere i figli a sviluppare le doti di creatività e di innovazione e a perfezionarsi nelle capacità occorrenti per condurre con successo un'impresa".
Bisogna spingerli ad applicarsi molto nello studio?
"Bisogna mandarli a studiare nelle scuole più severe, quelle nelle quali non si passa con il sei meno meno. Bisogna investire il necessario nella preparazione dei figli. Se si va dai genitori e si domanda quanto siano disposti a spendere per mandare il figlio a studiare, poniamo negli USA, otto su dieci risponderanno che non sono disposti a fare sacrifici. Invece è quanto mai utile andare all'estero, spostarsi, entrare in contatto con realtà diverse dal proprio quartiere. I genitori devono strattonare i figli dal loro torpore. Se vedono che si stanno adagiando nel solito tran tran - il baretto, i soliti amici, la fidanzatina - devono sospingerli a volare alto. Per esempio, devono indurli a frequentare periodi di studi all'estero: i nostri giovani sono tra quelli che meno di tutti frequentano Università all'estero o approfittano dei programmi Erasmus. E questo è un male".
Un suggerimento pratico?
"Noi genitori ci comportiamo nei confronti dei nostri figli come se fossimo lo sportello automatico di una banca. Dobbiamo evitare di fare della paghetta una variabile indipendente, ma dobbiamo far leva sulla sua funzione premiante. Se il figlio raggiunge degli obiettivi, allora merita un premio, altrimenti avrà diritto solo al minimo sindacale. Ma dobbiamo essere pronti ad investire con generosità sui figli: io da papà sarei contento di avere un'autovettura in meno o di prevedere di cambiarla una volta in meno perché credo in mio figlio e voglio investire su di lui. Tra vent'anni questo si rivelerà la cosa più intelligente che io avessi potuto fare".

Private equity e sviluppo delle imprese familiari
Anna Gervasoni spiega in che modo il private equity può interessare le imprese di famiglia.

Anna GervasoniIl fenomeno del private equity, cioè dell'investimento in capitale di rischio di imprese da parte di operatori specializzati, è un fenomeno ormai diffuso in Italia e che coinvolge differenti tipologie di imprese. Se dalla stampa spesso emergono solo le operazioni più grandi e più note, dall'analisi dei dati Aifi (l'associazione italiana che raduna gli operatori di private equity) possiamo vedere come il 65% delle operazioni riguardi imprese con meno di 100 addetti. Tale percentuale sale all'88% se consideriamo le imprese con un numero di addetti inferiore a 500. Ogni operazione che coinvolge il capitale di rischio, rappresenta un episodio straordinario nella vita delle imprese. In particolare, vediamo il fenomeno con riferimento alle imprese familiari. Se prendiamo i dati del PEM - private equity monitor, dell'Università Cattaneo-LIUC, ricaviamo alcune informazioni interessanti: innanzitutto le operazioni che hanno origine da imprese familiari sono il 60% del totale. Per quanto attiene poi la tipologia di operazione, parliamo sia di operazioni di sviluppo (expansion), dove chi finanzia l'impresa entra in minoranza ad affiancare l'imprenditore ed il suo progetto di crescita, oppure di operazioni di buy out, dove la famiglia vuole disinvestire e uscire dall'impresa, e dove l'operatore finanziario entra a fianco di manager acquisendo il controllo dell'azienda. Tali operazioni riguardano aziende di ogni dimensione. Se guardiamo al 2004, sempre secondo il PEM, possiamo esemplificare alcuni casi di imprese familiari con meno di 100 addetti che hanno fatto ricorso al private equity. Alcune tra le operazioni più significative di questo segmento, peraltro, sono state fatte in Lombardia, Regione che da sempre è grande fucina imprenditoriale.

Quale politica per le family business?
In che modo la normativa può aiutare le aziende di famiglia? Il parere di Walter Zocchi, esperto di diritto dimpresa.

Walter ZocchiLe imprese familiari in Italia sono oltre cinque milioni, influiscono sul Pil per quasi l'80% e impiegano il 75% della forza lavoro. Già da questi pochi, ma significativi dati, sorge dunque la necessità - per riprendere le parole del Presidente di Confindustria Montezemolo - che esse vengano "messe al centro" degli interventi del legislatore, data la centralità che rivestono nell'economia nazionale. Finora è stato fatto troppo poco per le imprese di famiglia. Qualche buona legge però è stata fatta. La cosiddetta "legge Visco" del 1997 ha dato la possibilità di rivalutare gli assets delle imprese (immobili, cespiti e beni immateriali) mediante operazioni straordinarie di riorganizzazione. È stato così possibile iscrivere in bilancio le plusvalenze su questi beni; in tal modo, in passato, i bilanci delle imprese di famiglia hanno potuto allineare i propri assets ai valori di mercato ed è stato così anche possibile effettuare ammortamenti fiscali. Purtroppo i bilanci della maggior parte delle aziende ad impronta familiare sono stati, per tradizione, e sono tutt'ora, ancora troppo sottovalutati, con la conseguenza deleteria di rappresentare il valore dell'impresa inferiore a quello reale. Difficile trovare bilanci con immobili a valore di mercato, macchinari a valore corrente e con avviamenti, brevetti, marchi, licenze e know-how iscritti al loro effettivo valore. Eppure, ci sono. Ne conseguono oggettive difficoltà al ricorso al credito.
Recentemente la legge Visco è stata superata da un altro intervento legislativo che ha uniformato la normativa fiscale italiana a quella dell'Unione Europea. Le rivalutazioni sono state rese possibili grazie al pagamento di imposte sostitutive. Peccato che fossero troppo elevate, in momenti, tra l'altro, di incertezza sui mercati e di scarsa liquidità aziendale.
Si deve poi ricordare l'eliminazione, nel 2001, dell'imposta di successione, anche se, a ben vedere, tale imposta indiretta non gravava sulle imprese, bensì sugli eredi dell'imprenditore, probabili futuri imprenditori. Da quel momento in poi, altre interessanti leggi hanno visto gli imprenditori come protagonisti, ma ben poche l'impresa. Nulla da dire sulla bontà o sull'opportunità di tali interventi. Molti dubbi invece sulla loro reale incisività sulla realtà imprenditoriale.
Cosa può fare dunque la politica in questo contesto del Family Business?
I problemi delle imprese a impronta familiare sono molteplici: fiscali, societari, finanziari, familiari e sono differenti per ciascuna fase dello sviluppo aziendale. Difficile accontentare tutti! Se ne prenda atto e si scelga almeno uno di questi settori in cui intervenire, ma con una legge sola forte e trainante. Meglio una sola legge forte che tante leggine che non servono a smuovere le Family Business. La politica dovrebbe innanzitutto fare delle scelte di campo precise perché di Family Business si può parlare in tre precisi ambiti:
Business in the family - Aziende in start up con l'imprenditore che lavora come un forsennato;
Family in the Business - La società tra congiunti: arriva la seconda e terza generazione e l'azienda ha già 25-30 anni e si proietta sino a 60-70;
Family Office - Le grandi imprese di famiglia. Qui è finanza corporate. Oltre i 70 anni di attività aziendale. L'imprenditore ha i manager che gestiscono, ma quante sono? Poche.
La politica tuttavia non basta. Anche l'imprenditore deve fare la sua parte. La strategia e l'organizzazione sono i due cardini dell'economia aziendale e danno il valore all'impresa, ma, con la governance eccessivamente informale e familiare, gli organi che funzionano sulla carta, la scarsa attenzione alla cultura e formazione in azienda e senza costruire un organigramma con deleghe "effettive" ai manager e professionisti, è difficile andare avanti bene.
Molte le ipotesi di lavoro nella fase del Family in the business che circolano tra gli esperti:
  • anticipare la data in cui si diventa imprenditori;
  • facilitare la redazione di regole scritte sul patrimonio e sulla gestione ed istituire un registro, nonché un comitato, per le controversie stragiudiziali nell'ambito familiare-patrimoniale;
  • rivedere il patto leonino e la quota di legittima per le imprese familiari;
  • agevolare le operazioni di affitto di azienda;
  • sostenere le trasformazioni da società di persone in società di capitali;
  • agevolare l'ingresso di manager esterni nelle società e specialmente in quelle di persone;
  • incentivare fiscalmente i fondatori d'impresa privi di eredi a cedere la proprietà ai manager, a terzi, ai dipendenti;
  • favorire il monitoraggio dei patrimoni familiari mediante la deduzione delle spese sostenute per la realizzazione delle perizie;
  • adottare un forfait presso le Camere di commercio per il deposito dei marchi;
  • istituire un'agenzia governativa di rating nazionale in vista di Basilea 2.
Infine, occorre anche un cambiamento per così dire "culturale" in ambito manageriale.
Convivere con i familiari dell'imprenditore non è facile, si sa. Pochi manager dunque vogliono "sporcarsi le mani" con questa tipologia di aziende. Tra le aziende ambite dai neolaureati, non a caso, troviamo Eni, Tim, Unicredit, Intesa, per non parlare delle multinazionali. In un recente sondaggio de "Il Mondo" non si legge alcuna azienda familiare tra le richieste dei futuri manager. Eppure ne abbiamo tante e pregiate e pure famose nel mondo quanto Eni: si pensi alla moda, per esempio. E per i manager già in circolazione vale lo stesso discorso. Una piccola e media azienda è palestra non meno utile di una multinazionale.

01/20/2006

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