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Città Metropolitana quali scenari?

Una realtà già prevista dalla Costituzione, di cui oggi si tracciano profili concreti grazie al Codice per le autonomie locali. Come nasce l'idea e con quali obiettivi. Quale futuro avrà Milano e, soprattutto, come promuovere (e non penalizzare) l'Alto Milanese, con gli strumenti previsti dal legislatore. Un focus per rispondere a questi interrogativi. Con i pareri dei rappresentanti delle istituzioni del territorio, del mondo accademico e del ministro Linda Lanzillotta, firmataria del disegno di legge.


L'URGENZA DELLE RIFORME
Se un tempo si diceva "piove, governo ladro", oggi è percepibile un profondo distacco e disamore dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Senza voler andare a fondo nelle motivazioni di questa insofferenza, si può però fare una semplice constatazione: di fronte ad una realtà civile, sociale ed economica in continuo dinamismo, l'organizzazione amministrativa, le leggi, le istituzioni, non si sono evolute altrettanto. Per questo, oggi, quanto mai, è sentita l'esigenza di riforme che ammodernino l'apparato governativo, che ridiano slancio al sistema Paese, affrontando quei problemi concreti che ci affliggono localmente ogni giorno, come - tanto per fare un esempio anche varesino - logistica e trasporti.
Il dibattito sulle Città Metropolitane si inserisce in questo contesto, nel solco del processo di attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione. La premessa teorica è semplice: laddove ci sono vaste aree omogenee, è sentita l'esigenza di piani di governance unitari per risolvere problemi comuni concreti, superando l'esagerata frammentazione di enti locali e amministrazioni pubbliche, e garantendo un'ottimizzazione delle risorse economiche. Se in passato, infatti, le città erano entità molto ben delimitate, oggi sono sistemi complessi, dove non c'è corrispondenza tra identità urbana e istituzionale: è necessario pertanto adeguare le strutture amministrative. E la Città Metropolitana, una vera e propria rivoluzione in Italia, esperienza testata all'estero, dovrebbe contribuire a rispondere a quest'esigenza.
Una curiosità: la legge che regolamenta, tra l'altro, l'istituzione delle Città Metropolitane è del 1990, ma il dibattito entra solo ora, con il Codice per le autonomie locali promosso dal Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie territoriali, Linda Lanzillotta, nella sua fase propositiva. Ci si chiede perché si sia lasciato passare così tanto tempo. Ad ogni buon conto, ora è evidente la necessità di un disegno strategico chiaro, che tenga conto di tanti fattori, tra cui la peculiarità delle diverse aree individuate dalla legge. Un disegno che possa valorizzare le specificità territoriali, senza snaturarle.

UN CODICE PER LA METROPOLI
Il 16 marzo scorso il Consiglio dei Ministri approva il Codice per le autonomie, un disegno di legge delega al Governo che ha gli obiettivi dichiarati di razionalizzare i livelli di governo, semplificare l'apparato, ridurre i costi della pubblica amministrazione, accrescere l'efficienza e consentire ai cittadini un controllo sul sistema. Un passo importante, seguito all'approvazione della Carta delle autonomie in Conferenza unificata da parte di Regioni e Comuni, e ora all'esame del Parlamento.
Il metodo è la ridistribuzione delle funzioni degli enti locali con una chiara definizione del "chi fa cosa" per evitare in futuro duplicazioni onerose, inefficienti e snervanti per il cittadino.
Si dà poi il via libera all'istituzione delle Aree metropolitane, che prevedono l'accorpamento alle grandi città dei comuni ad esse integrate economicamente, socialmente, culturalmente, in un unico, nuovo strumento di governo. Sono individuate sul territorio nazionale nove aree interessate, per la loro specificità (oltre a Milano, Bari, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Roma, per la quale si fa un discorso a parte, come capitale, e infine Torino e Venezia) e disciplinati i principi generali. Data la diversità tra le aree individuate il disegno di legge non introduce schemi uniformi, prevedendo che gli stessi territori possano scegliere il modello più consono alle proprie caratteristiche, anche a livello di statuto, garantendo così, in maniera innovativa, la specificità dei territori, ma, insieme, introducendo una prima criticità. A livello organizzativo, i Comuni sono confermati come unità amministrativa di base mentre alle Province e alle Città metropolitane sono assegnati i compiti di più ampio raggio, con una competenza sull'"area vasta" di programmazione e coordinamento di attività che attengono al governo e alla gestione del territorio: dalla viabilità, all'ambiente, dalla valorizzazione del territorio al sistema scolastico e formativo. Ma non senza distinguo. Quantitativi: le competenze funzionali spetteranno solo a quelle realtà che hanno una dimensione minima necessaria a garantirne efficienza ed economicità. Qualitativi: le definizioni territoriali delle aree metropolitane non sono così chiare, in quanto possono non coincidere con i confini provinciali. Di qui il dibattito, anche piuttosto acceso, di cui parleremo in seguito, che riguarda nello specifico la complessa realtà milanese. In materia di competenze, la Città Metropolitana acquisisce tutte le funzioni della Provincia preesistente, articolandosi in Comuni, e il capoluogo, a sua volta, in Municipi.
Ma a chi spetterebbe, secondo il disegno di legge, il passo decisivo, l'"iniziativa", per l'istituzione delle Città Metropolitane? Agli stessi enti locali, sentito il parere della Regione. O meglio, al Comune capoluogo o al 30% dei Comuni interessati, o ad una o più Province (in ogni caso deve essere rappresentato il 60% della popolazione). Sulla proposta di istituzione si prevede un referendum tra i cittadini dell'area coinvolta, senza quorum o con quorum del 30%, a seconda del parere a favore o contro da parte dell'Ente regionale. Percentuali, però, che fanno riflettere, se si considera la diversità demografica delle nove aree considerate.
Il percorso verso la Città Metropolitana è ancora lungo: non solo per l'iter burocratico, ma anche per il dibattito che mette in luce le diverse posizioni, pro e contro la realizzazione del progetto. Al di là delle singole opinioni politiche, rimangono degli aspetti da chiarire e le perplessità di quei Comuni periferici che rischiano di essere inglobati in una realtà che, si accusa da più parti, potrebbe, snaturarne l'identità.

IL RILANCIO SI FA IN... COMUNE
Non solo Città metropolitana. Il rilancio dell'amministrazione locale è affidato anche ad una serie di strumenti volti a ottimizzare le risorse dei singoli enti, in un'ottica di rete, non più lasciata alla libera e frammentata iniziativa dei singoli, ma regolamentata per legge, in particolare per le realtà troppo piccole, secondo specifiche modalità, e incentivata anche finanziariamente. Sono individuati "ambiti ottimali per l'esercizio di servizi e di funzioni": in pratica laddove una singola realtà sia in grado di raggiungere un obiettivo da sola, si deve associare, o verticalmente (Provincia e Comune) o orizzontalmente (tra Comuni). Per chi raggiunge gli obiettivi sono previsti "premi di produzione", costituiti dall'acquisizione di funzioni proprie aggiuntive.
Il fine è favorire politiche di scala sovracomunali per permettere agli enti locali di svecchiarsi e fare fronte alle nuove problematiche economiche e sociali. L'obiettivo sotteso è quello di razionalizzare i costi, anche attraverso queste formule associative, evitando duplicazioni inutili. Un discorso che, dichiaratamente, non esula da un parallelo impegno sul fronte del federalismo fiscale, per finanziare in futuro le nuove funzioni degli enti. Per garantire risorse economiche, linfa per i Comuni piccoli e medi e per tutto il contesto.
Viene da chiedersi, tuttavia, perchè, se la legge 142 del 1990 già elencava le forme associative possibili per gli enti locali (convenzioni, consorzi, unioni di comuni, accordi di programma), oggi sia necessario ribadire il concetto. Tuttavia, le libere iniziative di questo genere realizzate negli ultimi anni, indicano questa strada come l'unica da percorrere per promuovere il territorio, abbandonando divisioni ed antistorici campanilismi, a fronte di obiettivi comuni.

PROVINCIA, PROVINCE
Queste alleanze di scopo dissiperebbero i timori sull'ipotesi di istituire nuovi enti ad hoc con funzioni intermedie. La legge vuole, infatti, ridurre o razionalizzare i livelli di governo, non aumentarli. Dovrebbe essere una risposta chiara alle polemiche degli ultimi tempi, sui giornali e in televisione, sulla moltiplicazione delle province sul territorio nazionale, con la relativa moltiplicazione di sedi, uffici, personale amministrativo, ecc. La trasmissione della RAI Report, per esempio, ha recentemente realizzato un'inchiesta, per mettere in luce il caso limite della Sardegna che ha visto raddoppiarsi il numero delle province, con quattro nuove, tutte con due capoluoghi, nate grazie a una legge della Regione Autonoma. Intervistato sul peso economico a carico della Regione per i nuovi enti, Renato Soru, presidente della Sardegna, affermava di aver semplicemente ripartito per otto, quello che prima si spendeva per le quattro Province. Dunque, si duplicano i funzionari, le strutture, gli uffici, ma non le risorse. E' lecito il dubbio: se prima l'ente Provincia, ricevuto un tot, ne spendeva parte per la gestione interna e parte per il benessere del territorio, dimezzate le risorse, ma raddoppiate le strutture, non sarà il bene pubblico a rimetterci?
Un fenomeno, quello dell'aumento degli enti locali, che la stessa Unione delle Province italiane ha più volte rifiutato, sottolineando come possa portare ad un'eccessiva frammentazione delle risorse e ad un aumento dei costi di gestione improponibile.

05/11/2007

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