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Contro le riforme, è ancora P38

Il tragico episodio dell'assassinio di Marco Biagi, che ha colpito il nostro paese, ha posto l'accento sui toni del dibattito politico. Da ogni schieramento e dalle parti sociali, una condanna unanime al terrorismo. Ma il dialogo sociale è fermo.

All'indomani dell'assassinio di Marco Biagi, docente di diritto del lavoro, editorialista del Sole24Ore e consulente del Ministro del Welfare Roberto Maroni, la stampa internazionale aveva ben sintetizzato la drammatica situazione in cui l'Italia sembra ripiombata: in Italia le riforme sono quasi impossibili. Per esempio, la Frankfurter Allgmeine Zeitung aveva sottolineato che "il terrorismo si rivolge senza distinzione contro i rappresentanti dei Governi di destra e di sinistra". Insomma l'Italia vive una situazione paradossale dove anche una minuscola riforma minaccia la pace sociale. D'altra parte il terrorismo ha individuato in Marco Biagi e, prima in Massimo D'Antona, il tecnico e lo studioso di frontiera, ne' di destra ne' di sinistra, ma uomini convinti di poter cambiare le cose senza traumi e conflitti attraverso la ricerca del consenso e della mediazione.
Marco Biagi non era uomo di parte, era impegnato a cercare soluzioni che potessero essere utili a tutti. E proprio per questo deve essere sembrato "scomodo" a chi vuole riportare indietro la storia e sogna il ritorno alla contrapposizione violenta tra le classi. Ma pur in una fase delicatissima per il Paese il dovere del Governo e delle parti sociali è di tornare al centro del campo, riprendere il dialogo, entrare nel merito delle questioni in discussione abbandonando facili slogan e inutili pregiudiziali. Non farlo sarebbe, oltre che un errore, uno straordinario regalo ai terroristi che potrebbero in questo modo essere convinti di poter condizionare a tal punto i processi sociali ed economici. Un segnale è arrivato dallo stesso Premier Silvio Berlusconi che, poche ore dopo il tragico fatto di Bologna, ha invitato le parti a riprendere il dialogo, ma senza cedimenti. I sindacati, tuttavia, non intendono fare marcia indietro sull'articolo 18 e, stante il clima di tensione venutosi a creare con il governo, il previsto incontro del 27 marzo tra quest'ultimo e le parti sociali è stato annullato. Una decisione che ha indotto tutte le più importanti organizzazioni imprenditoriali - Confindustria, Confartigianato, Confagricoltura, Abi e Ania - a scrivere una lettera aperta al capo dell'esecutivo nella quale è stato espresso rammarico per l'interruzione del dialogo sociale e l'auspicio che il confronto riprenda. Difficile fare le previsioni sulla possibile evoluzione ma appare sempre più probabile che soltanto dopo la fase delle manifestazioni e degli scioperi si potrebbe avviare un confronto cercando di superare le obiezioni pregiudiziali. Tutti hanno paura di arretrare in questo momento, convinti che anche un piccolo passo indietro possa essere interpretato come una sorta di cedimento ai ricatti del terrorismo. Il sindacato ha messo in moto da tempo la kermesse delle proteste, una macchina difficile da fermare. Esaurita la prova delle piazze si potrebbe entrare nel merito dei problemi. Su una cosa, però, il Governo sembra inflessibile: non intende, cioè, rinunciare a un progetto di riforma del mercato del lavoro e la revisione delle attuali norme dell'articolo 18 rappresenta un "pezzo" di questo piano. Pochi giorni prima dell'attentato il Governo Berlusconi aveva deciso: la riforma del mercato del lavoro va fatta, compresa quella dell'articolo 18 che, a partire dall'autunno scorso, sta scatenando una tempesta politico-sindacale. E anche allora Berlusconi aveva detto: "la piazza non ci spaventa e alla riforma siamo costretti anche dai continui richiami di Bruxelles". E così è stata decisa un'operazione in tre mosse sull'articolo 18. Il risarcimento sostituisce la reintegrazione finora garantita in tre casi: per i fenomeni di emersione dal lavoro nero, per le aziende che intendono crescere oltre i 15 addetti e per la trasformazione dei contratti a termine in impiego a tempo indeterminato nelle regioni del Mezzogiorno. L'applicazione delle nuove regole è sperimentale per quattro anni. Si tratta quindi di casi "mirati" e limitati, sui quali provare a verificare quella che è una convinzione diffusa anche nel mondo produttivo e ribadita da Francesco Rosario Averna (consigliere incaricato di Confindustria per il Mezzogiorno) commentando la decisione del Governo: per le piccole imprese sarà un'occasione per crescere e per il Sud uno strumento per attirare nuovi capitali. Per il Governo, dunque, si toglie una sorta di tappo alla crescita e tutto quindi va nella direzione di centrare il traguardo di un tasso di occupazione del 60% entro il 2010 contro poco più del 50% attuale. Un obiettivo indicato dal vertice di Lisbona dei Paesi UE proprio due anni fa. Ma il metodo intrapreso apre una nuova stagione nei rapporti con le parti sociali. La convinzione è che la lunga fase della concertazione sia arrivata al capolinea dopo aver centrato importanti obiettivi nel corso degli anni 90. Quindi non più intese a tutti i costi e con tutti i protagonisti (sono 32 le sigle ammesse al tavolo della concertazione) che rischiano di produrre grandi accordi-quadro ma anche di allungare i tempi di realizzazione. Meglio allora il sistema del dialogo sociale trovando di volta in volta accordi immediatamente applicabili. La svolta decisionista del Governo ha, però, aperto una fase di duro scontro con il sindacato e non soltanto con la Cgil che, già a febbraio, aveva fatto la scelta dello sciopero "solitario" e che si è ripetuta con una manifestazione imponente svoltasi a Roma, ai Fori Imperiali, il 23 marzo. Adesso anche Cisl e Uil hanno rotto gli indugi ritrovando, almeno in questa circostanza, un'unità d'azione con la Cgil. Intanto i confederali si sono trovati d'accordo sulla necessità di alzare il tiro della protesta ritentando la prova della piazza con lo sciopero generale unitario proclamato per il 16 aprile. La Cgil sogna un bis della manifestazione del '94 che ha innescato la crisi del primo Governo Berlusconi e vuole accreditarsi come l'unica opposizione "vera" a Palazzo Chigi. Un'operazione che Sergio Cofferati, pensando anche al proprio futuro post-Cgil, sta conducendo da molto tempo. Cisl e Uil, però, non sono disposte a seguirlo su questa strada e continuano a respingere qualsiasi significato politico della propria azione e non perdono la speranza di riaprire un tavolo sindacale sgombrato dal macigno dell'articolo 18. Sono, quindi, evidenti le divisioni strategiche all'interno dei confederali che non possono non interrogarsi su una questione: dopo lo sciopero generale che cosa succederà?
Ma al fondo di tutto - come ha osservato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera - c'è uno scontro che va al di là dei singoli episodi e che, in realtà, si allarga a una questione di fondo: per la prima volta il mercato e l'impresa sono stati messi al centro della cultura politica nazionale dove, finora, aveva dominato la scena soltanto il lavoro dipendente, unico modello di lavoro "vero". E come sempre quando si fronteggiano visioni così differenti si producono strappi e resistenze al cambiamento.

03/28/2002

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