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Ridare fluidità al mercato per offrire speranze ai giovani

Bastano razionalità e buona fede per modernizzare regole che oggi escludono dal lavoro i troppi non protetti.

In principio era il diritto al lavoro. Recepito anche nella nostra Costituzione.
Un diritto universale che coglieva l'istanza naturale dell'uomo a cercarsi un'attività per vivere e sopravvivere. Poi è diventato il diritto del lavoro e anche solo il banale cambio di preposizione ha portato, in realtà, a un radicale mutamento di scenari.
Così i migliori cervelli e le migliori menti giuridiche si sono arrovellate a disciplinare, sedimentando regole e prassi nel corso degli ultimi 30 anni, non già il momento della ricerca, l'incontro tra domanda e offerta, ma solo i comportamenti di
lavoratore e datore di lavoro. E così le norme sono diventate altrettante sbarre di una gabbia che col passare degli anni ha avvolto il mondo del lavoro che è diventato qualcosa a sé rispetto al mondo del non-lavoro, tenuto negletto per decenni. Questa artificiosa separazione tra i due mondi ha creato un formidabile ceto professionale di gestori di poteri di interdizione e di veto, perché posti a presidio delle tante "chiuse" inserite nel reticolo delle regole, un ceto burocratico volto essenzialmente alla propria autoconservazione attraverso la creazione di nuove regole, nuove interpretazioni, nuovi codicilli.
Ciò ha prodotto nel tempo un cattivo funzionamento del mercato del lavoro e una sempre più vistosa iniquità sociale.
Il bozzolo di regole che ha avvolto il lavoro e il lavoratore è tutto proteso a evitare la fluidità nel mercato del lavoro e a stabilizzare una singola (possibilmente la prima) posizione lavorativa, indipendentemente dalle condizioni di mercato dell'azienda e del settore.
Questo ha prodotto - come sempre nelle cose che riguardano il bene più prezioso che è il lavoro - una fuga dalle regole attraverso meccanismi di adattamento informale e a forme di aggiramento delle regole che fosse però lecito.
Ne è nata una pluralità di strumenti di ingresso nel mercato (con sempre maggiori quote di flessibilità nelle condizioni di ingaggio) che ha interessato soprattutto i giovani, su cui il sistema ha scaricato i "costi" - sia finanziari, sia normativi - di adattamento alla iper-regolazione generale.
Contratti di formazione, apprendistato, contratti a termine, part time, interinale, lavori parasubordinati, consulenze, partite Iva, piani di inserimento professionale, stage e tirocini: tutti strumenti utilissimi per creare nuove occasioni d'impiego, ma spesso veri e propri escamotage di fronte alla granitica immutabilità dei contratti a tempo indeterminato, spesso incompatibile con la ben più volatilità dei mercati globalizzati.
Questo sbilanciamento generazionale ha così prodotto anche una distorsione marcata nel sistema di Stato sociale che paga situazioni di palese privilegio tra i pensionati (ad esempio certe pensioni di anzianità) e non è più in grado di garantire coperture future dignitose al grande mondo del lavoro "atipico". E ciò proprio mentre in tutto il mondo occidentale il sistema del Welfare State sconta una contraddizione clamorosa e paradossale di un mondo del lavoro dove si accorcia sempre più il periodo del turnover, mentre si allunga l'aspettativa di vita e l'arco di impegno nella vita attiva.
E' chiaro che occorre un ripensamento strategico. E le stesse analisi dell'Unione europea aiutano a comprendere quale sia il nuovo punto di orizzonte cui fare riferimento: l'impiegabilità. Vale a dire il passaggio dall'angoscia della disoccupazione senza prospettive, alla certezza positiva di poter transitare da un posto a un altro grazie alla propria professionalità sempre crescente.
Ciò impone, però, la rimodulazione dei diritti di riferimento, primo dei quali diventa la formazione, unico vero strumento di tutela sicura nel mare in tempesta del lavoro mondializzato del terzo millennio.
Se questo diventasse il modello condiviso con cui rappresentare il lavoro, allora diventerebbero possibili "scambi" interessanti tra nuove forme di tutela nei periodi di disoccupazione (magari assicurativi), modalità di mantenimento dei livelli professionali, emersione del sommerso, forme di flessibilità d'impiego.
Il mercato del lavoro non può diventare razionale se non si mette mano anche al sistema di welfare e al suo meccanismo di finanziamento: oggi è evidente la sproporzione delle aliquote di equilibrio tra le diverse gestioni con un sovraccarico sul lavoro dipendente che potrebbe diventare meno gravoso se fosse redistribuito tra lavoro autonomo e parasubordinato accompagnandolo a un allentamento della morsa di regole sulla modalità di gestione del lavoro e a un innalzamento dell'età pensionabile.
E in questo ripensamento dovrebbe essere compresa - perché no? - la regola che disciplina il reintegro dei lavoratori licenziati. Arrivare a forme di arbitraggio sulla giusta entità di un eventuale risarcimento (ed evitare un reintegro generalizzato, sgradevole, di fatto, per tutti i soggetti coinvolti) potrebbe essere un segno importante di una inversione di tendenza, prima di tutto culturale.
Certo, occorre ragionare senza ideologismi, senza tabù o demagogie. La modernizzazione delle regole ha bisogno solo di buona fede e di razionalità.

02/15/2001

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