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Sei don Abbondio o il principe di Condé? …Riflettendo su economia, politica e letteratura, sul senso della vita che ci porta nel futuro.
Raggruppati in capitoli tematici, costruiscono un filo logico che li fa diventare parti di un’analisi complessiva sul sistema economico: dalla globalizzazione all’euro, dalla new economy alle liberalizzazioni. Talamona è convinto che, non tanto l’economia in senso astratto, quanto la crescita economica sia in grado di offrire gli strumenti per affrontare i grandi temi della società, per affermare una fiducia di fondo nelle potenzialità di ogni singola persona e della società nel suo complesso. Ricordando che l’economia è la ricerca di equilibri successivi - tra mercato e regole, tra libertà e responsabilità, tra logiche scientifiche e valori morali - Talamona suggerisce una "ricetta astronomica" per cercare di rispondere alle esigenze di cambiamento e riforma che l’economia italiana avverte acutamente al proprio interno per poter soddisfare, con equità ed efficienza, i crescenti bisogni individuali e collettivi di una società moderna, e quindi la stessa qualità della vita. In che modo? Mai restare fermi, ma cercare di imprimere nello stesso tempo all’economia e alla società una spinta corrispondente alla somma di più movimenti analoghi a quelli della Terra: rotazione (su se stessi), rivoluzione (nell’orbita europea), traslazione (nell’economia globale).
Il principe di Condè e don Abbondio rappresentano due diversi, anzi opposti stili manageriali, esempi di gestione di situazioni complesse, stimoli utili a riflettere sui comportamenti di dirigenti, di manager, in genere di persone che operano in posizioni di responsabilità. A chi si ispirano, in genere, costoro? Solitamente prendono spunto dai guru del management, dai libri dei grandi consulenti, ma trascurano la letteratura, che è invece ricca di scenari socioeconomici, di sfondi che sono luoghi di lavoro, di studi di casi aziendali. Esistono romanzi che sono delle vere e proprie case histories, perfette rappresentazioni di modelli organizzativi ed esistono autori che meglio di qualsiasi sociologo hanno saputo descrivere non solo un’epoca, ma anche il funzionamento della macchina produttiva. Il volume vuole offrire qualche stimolo ed invitare ad allargare lo sguardo: il lettore può tornare su romanzi e racconti già letti, applicarvi i propri strumenti professionali, cogliere spunti in qualche modo utili a leggere le organizzazioni. E attraverso queste opere "viaggiare": dal marketing alla gestione delle risorse umane, dallo sviluppo organizzativo alle nuove frontiere dell’informatica, tutto può essere detto senza ricorrere a linguaggi settoriali, perché ciò che scrive oggi lo specialista è già stato raccontato ieri da un romanziere, con più profondità, acume e stile piacevole.
A questa domanda Sergio Romano risponde analizzando gli eventi e i personaggi che hanno occupato la scena politica internazionale nell’ultimo decennio: dalla guerra del Golfo a quelle del Corno d’Africa e delle repubbliche ex sovietiche; dalla dissoluzione della ex Jugoslavia alle diverse realtà di Cina, Corea e Cuba; dal ruolo della NATO e dell’Europa a quello dell’Italia. Gli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta, si sono assunti il "governo" del pianeta, ma sono troppo democratici per essere totalmente imperiali e non c’è e non vi sarà mai - afferma l’autore - un ordine americano: le speranze che l’89 aveva alimentato sembrano essere andate deluse e, dieci anni dopo, esso appare già come un’occasione perduta per stabilire nello scacchiere mondiale i migliori equilibri possibili per una pace duratura. Senza dimenticare, naturalmente, che "il corso delle cose è quasi sempre dettato da un’inestricabile combinazione di casualità e di necessità".
Secondo l’autore, la parabola biologica della società occidentale dimostra che perdendo il rapporto con il passato si perde il rapporto con il futuro. La parabola ideologica della società occidentale, cominciata con la guerra al passato nel nome del futuro, si è conclusa con la fuga dal futuro nel nome del presente: la nostra è l’età che accetta solo vincoli di simultaneità, reticoli di contemporaneità. Da queste considerazioni nasce il tentativo di ripensare la Tradizione, che solitamente è elogiata o confutata, vissuta o negata, ma difficilmente viene tematizzata. Sono tre i motivi di attualità per riflettervi: "Il giro di boa del millennio che evoca ponti epocali e pensieri lunghi, millenaristici; l’assenza di progetti per l’avvenire che riflette la tabula rasa di memorie nell’uomo del Duemila e la proietta come un’ombra sulla tela bianca del suo domani; l’esigenza di connettersi a una rete verticale per il navigatore del nostro tempo, a cui viene offerta solo la possibilità di immettersi in una rete orizzontale (Internet). Eppure, nell’era della velocità, dello spaesamento e del sapere labile e nomade, si avverte la necessità di ancoraggi e di saperi non precari, non volatili".
E’ quello che l’autore definisce "effetto vendetta": ogni progresso tecnologico conduce a paradossali conseguenze inattese, più sono complicati i sistemi che governano la nostra vita più si moltiplicano gli effetti vendetta e, mentre siamo impegnati a migliorare il mondo, il mondo fa di tutto per pareggiare i conti. Questo saggio è una riflessione su cose che sperimentiamo tutti i giorni e delle quali potremo finalmente farci una ragione, ma non è affatto una filippica contro il progresso e l’innovazione. Vuole anzi esortarci ad accettare il cambiamento, senza entusiasmi eccessivi, con un po’ di scetticismo e, soprattutto, senza chiudere gli occhi - anzi, tenendoli bene aperti! - di fronte alla sue conseguenze.
Nella prefazione: "…Doveva essere bella Varese prima che, negli anni del saccheggio edilizio, palazzi e palazzacci assolutamente estranei all’urbanistica originaria, ne deturpassero il volto… Quante immagini sbiadite e quanti rimpianti. Se ne fa carico Ricciotti Bornia in queste pagine e la sua opera ha un duplice pregio: aggiungere frammenti preziosi al mosaico della cronaca che diventa storia; rendere giustizia al passato illustre della "Versailles di Milano", e alla lungimiranza dei suoi abitatori, lanciando un monito, e un discreto rimprovero, ai contemporanei. Hanno ricevuto un marengo, non sono riusciti a tradurlo in ricchezza perenne…".
Scrive così Francesco Alberoni, presentando questo elegante volume celebrativo, dove si racconta di un ennesimo miracolo imprenditoriale nato, cresciuto e irrobustitosi all’ombra del Sacro Monte, prima di spiccare il volo verso gli States: dalle prime maglie di Giuseppe Dacò ai Dini, che prendono le redini dello stabilimento alla fine degli anni Cinquanta e saranno gli artefici del marchio di successo - lo squaletto - destinato ad apparire nell’Upper Midtown newyorkese. Senza per questo che l’azienda perda la sua originaria "connotazione": il nome della società "DaMa" è un acronimo di Dacò-Masnago, perché la tradizione deve continuare, anche se le impostazioni e le scelte di mercato sono nuove e moderne.
04/19/2001 | |||||||||||||||||||||||
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