Varesefocus.
Unione degli Industriali della Provincia di Varese
Varesefocus

 
 

Che bionda!

Dalla civiltà della Mesopotamia ai nostri giorni, passando per i Celti: l'appeal della bionda e spumeggiante birra insidia il mito italiano del vino.

E' più antica l'abitudine di gustare il vino o quella di bere la birra?
Per la civiltà mediterranea dubbi non ne esistono: il primato spetta al vino. Tuttavia se ci spostiamo un po' in là,
ad esempio in quella Mesopotamia che pure è stata culla di importanti civiltà,
si trovano cospicue tracce dell'uso della birra persino come bevanda sacra, da offrire cioè agli dei.
Grandi bevitori di birra erano i Sumeri che la consideravano un vero e proprio toccasana, tanto che i medici consigliavano sempre ai propri pazienti un buon boccale di questa gustosa bevanda per accelerare la guarigione.
Fu anche per questi prodigi che l'uso della birra cominciò a passare di popolo in popolo, mano a mano che in quei turbolenti secoli a una dominazione ne seguiva un'altra.
Certo è che la birra venne subito apprezzata dalla bellicosa ed errabonda popolazione dei Celti che ad un certo momento colonizzarono buona parte dell'Europa, spingendosi per un verso in Irlanda e per l'altro nelle regioni meridionali, Italia compresa. E forse fu così che la birra giunse tra noi, anche se le citazioni che se ne trovano negli antichi testi fanno pensare ad una bevanda amata più dal popolo che dai ceti colti e aristocratici. Un nuovo e stavolta definitivo boom la birra lo conobbe grazie alle invasioni dei popoli germanici che, contagiati dai Celti, avevano fatto della birra una bevanda nazionale. Sul piano storico si arriva così ad un fatto certo.
E' ormai assodato che, iniziata l'opera di cristianizzazione di questi popoli, i monaci missionari si lasciarono in qualche modo conquistare dalla birra che evidentemente era un buon tramite di dialogo. Ebbe inizio così la grande tradizione delle birre speciali prodotte nei monasteri, specialmente nelle regioni del Nord Europa, che ancora oggi deliziano il palato dei buongustai e costituiscono la base di una florida economia. Non c'è grande marca di birra che non abbia uno o più marchi con l'immagine di una frate o di un monastero e se poi sulla bottiglietta c'è scritto che la stessa viene prodotta ancora in convento si pensa addirittura che la spumosa bevanda possegga delle virtù miracolose.
La birra che beviamo noi oggi è, comunque, il frutto di una serie di misure protettive, persino a carattere legislativo, che sono state introdotte in questo millennio allo scopo di salvaguardarne la qualità.
Si pervenne così ad un famoso editto tedesco degli inizi del Cinquecento che stabilì in modo definitivo che la birra di qualità doveva e deve essere prodotta con orzo, luppolo e acqua e, naturalmente il lievito prodotto spontaneamente dalla precedente fermentazione.
Sono state dunque le popolazioni di lingua tedesca, e in taluni casi inglese, a diffondere in tutto il mondo il consumo della birra. Non a caso questa abitudine in Italia cominciò a diffondersi solo tra Sette ed Ottocento, grazie al consolidarsi della dominazione austriaca. Resta da dire però che la birra non riuscì mai a scalzare il primato del vino neppure nei ceti più popolari. Ciò si verificò da una parte per la secolare abitudine a bere vino e dall'altra a motivo che non c'era famiglia contadina che non possedesse una vigna, potendosi così trovare il vino a buon mercato.
Si calcola che ancora agli inizi del ventesimo secolo le birrerie in Italia superassero di poco il centinaio e che le stesse fossero diffuse soprattutto nelle regioni settentrionali.

Anche nelle cronache di Varese e provincia non si trovano molte informazioni al proposito. Prima che Angelo Poretti desse vita al suo famoso stabilimento era stata una donna a tentare questa straordinaria avventura, Geltrude Amati, che nel 1853 aveva aperto proprio in città una fabbrica di birra con relativo spaccio. Il termine fabbrica può forse in tale caso trarre in inganno, perché con tutta probabilità si trattava di una produzione di tipo familiare. Analogo, e sempre a Varese, il contemporaneo caso di Paolo Laùfur. Un ultimo tentativo fu iniziato nel 1874 a Vergobbio, in Valcuvia, ma anche stavolta senza grandi risultati. Tanto che tre anni dopo, la Camera di Commercio indirizzò alla consorella di Chiavenna la proposta di istituire congiuntamente delle borse di studio all'estero per apprendere l'arte di fabbricare la birra: un'industria questa - si diceva - "non esercitata nel Varesotto".

09/04/2000

Editoriale
Focus
Economia
Inchieste
L'opinione
Territorio

Politica
Vita associativa
Formazione
Case History
Università
Storia dell'industria
Natura
Arte
Cultura
Costume
Musei
In libreria
Abbonamenti
Pubblicità
Numeri precedenti

 
Inizio pagina  
   
Copyright Varesefocus
Unione degli Industriali della Provincia di Varese
another website made in univa