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Frontalierato, è di nuovo Lugano bella

Il frontalierato di nuovo in ripresa negli ultimi tempi. Un fenomeno che presenta aspetti critici. La necessità di iniziative che puntino allo sviluppo complessivo dei sistemi economici transfrontalieri.

Quella di Varese è una provincia di confine e, si sa, come accade anche in altre aree simili, il Comasco, il Verbano-Cusio-Ossola, l'attrazione della vicina Svizzera è fatale per i lavoratori italiani quando l'economia cantonale tira. Cessa invece di esserlo non appena si affaccia la recessione.
Il fenomeno del frontalierato è altalenante, risente cioè sensibilmente dell'andamento congiunturale. Negli ultimi anni è stato in ripresa, mentre mostra un deciso ridimensionamento se lo si considera nell'arco degli anni '90. Nel 1999 i frontalieri erano 28.000. Ora, sono risaliti a circa 32.000 ma il ridimensionamento delle prospettive di crescita economica soprattutto dopo i fatti di Manhattan lascia immaginare una nuova inversione di tendenza.
Lo status di frontaliere viene riconosciuto a chi, risiedendo da almeno sei mesi in un comune della zona di frontiera, cioè a non oltre 20 km dal confine, si reca giornalmente in Svizzera per lavoro. Attualmente, il frontaliere non ha diritto di pernottare sul territorio cantonale ed è quindi obbligato ad un rientro giornaliero in Italia. Una condizione disagevole, che appare tra l'altro non più in sintonia con i tempi, quando in Europa ha trovato ormai pieno accoglimento il principio della libertà di circolazione, oltreché dei beni e del capitale, anche del lavoro. Ma questo è il destino dei frontalieri in Svizzera, finché almeno non entrerà in vigore il nuovo accordo bilaterale sottoscritto tra la Confederazione e l'Unione Europea.
Gran parte dei lavoratori frontalieri trova occupazione nel settore manifatturiero (circa il 48%), seguito dai servizi (37%) e dall'edilizia (14%). Nel solo comparto manifatturiero, dal maggio 2000 al maggio 2001, hanno trovato occupazione quasi 1.200 nuovi lavoratori. In tutti i settori sta però crescendo la richiesta di lavoratori sempre più qualificati. Per conseguenza, si verifica un fenomeno preoccupante: molti lavoratori che vengono formati nei centri di formazione professionale e, poi, nelle imprese delle zone di confine, se ne vanno in Svizzera non appena acquisito un discreto livello di professionalità. Un problema grave per le imprese e un depauperamento per l'intero territorio.
Il motivo della fuga è presto detto: i livelli retributivi in Svizzera sono più elevati di quelli italiani. Considerando le retribuzioni al lordo delle imposte e degli oneri sociali, la Svizzera occupa la seconda posizione e l'Italia la diciassettesima fra i paesi più industrializzati. I valori, espressi in dollari a parità di potere di acquisto (quindi perfettamente confrontabili) indicano, secondo dati dell'Ocse, che il salario medio di un lavoratore svizzero è superiore a quello italiano di oltre il 30%. E anche le retribuzioni al netto di imposte e contributi sociali sono alquanto differenziate. Nella comparazione la Svizzera occupa la prima posizione, l'Italia la sedicesima. Il che significa che il salario medio netto del lavoratore svizzero è superiore del 42% rispetto a quello italiano.
Nella fasce professionali più qualificate, la differenza è ancora maggiore. Dati della banca svizzera UBS indicano che un operaio specializzato a Zurigo percepisce un reddito netto di 58.000 franchi circa, mentre la stessa figura professionale in Italia ne percepisce 21.000 circa.
Se invece si considera il costo del lavoro nel suo complesso (retribuzioni lorde più contributi a carico del datore di lavoro), si può affermare che non esistono sostanziali differenze fra i due paesi. Nella graduatoria dell'Ocse la Svizzera occupa la terza posizione e l'Italia la quarta e ciò, nonostante tra i due paesi ci sia un sensibile differenziale contributivo - circa 12 punti percentuale - che viene però in gran parte attenuato dal fatto che il datore di lavoro svizzero assume volontariamente, o in forza di contratti collettivi, forme assicurative complementari a quelle previste dalla legge. Peraltro, va notato che il carico contributivo in Svizzera (31% circa) viene sostanzialmente diviso in parti uguali fra impresa (16,55%) e lavoratore dipendente (14,55%) a differenza di quanto avviene in Italia, dove il carico complessivo (43% circa) è per quasi l'80% a carico del datore di lavoro.
Le conseguenze del fenomeno del frontalierato non pesano però solo sulle imprese, che trovando sempre maggiori difficoltà a reperire collaboratori qualificati rischiano di compromettere la propria capacità di stare sul mercato con prodotti di elevata qualità.
Ci sono altre conseguenze di carattere più generale: i costi di formazione sopportati dalle istituzioni scolastiche italiane, i costi di assistenza sanitaria per i frontalieri che, pur versando le imposte in Svizzera, ricevono invece assistenza nel nostro Paese; i costi sociali per le aree al di qui del confine quando, in dipendenza dell'andamento sfavorevole del mercato, i frontalieri vengono lasciati a casa.
Come ovviare a questa situazione?
Uno dei rimedi prospettati è quello di alleggerire gli oneri fiscali e contributivi sulle imprese localizzate nella fascia di confine, per metterle nella condizione di poter elevare i salari netti ed essere quindi più attrattive. Ci sono però delle perplessità, per varie ragioni. La prima è che una misura del genere ben difficilmente potrebbe essere autorizzata dall'Unione Europea, che qualche tempo fa bocciò l'ipotesi di un taglio del carico fiscale alle imprese voluto dalla Regione Sicilia. La seconda ragione è che, nel caso in cui quella misura venisse adottata, si finirebbe per traslare territorialmente il problema di 20-30 km al di qua del confine. Con la conseguenza che le difficoltà che incontrano, oggi, le imprese, ad esempio, di Castelveccana, si trasferirebbero su quelle di Somma Lombardo, Gallarate, Tradate, ecc.
Si creerebbe, cioè, una sorta di frontalierato interno alla provincia.
Un'altra strada, forse più percorribile, potrebbe essere quella della revisione degli accordi italo-elvetici in materia di trattamento fiscale e previdenziale dei frontalieri, accordi che risalgono a molti anni or sono, quando il quadro economico nelle zone di confine era diverso dall'attuale e l'Italia aveva interesse a sostenere l'emigrazione. Tuttavia, anche questa strada riserverebbe degli ostacoli. Dovendosi mettere in discussione il sistema di imposizione fiscale del frontaliere, infatti, risulterebbe difficile la salvaguardia dei "ristorni dei frontalieri": introiti economici di cui beneficiano i comuni delle aree di confine proprio in virtù del fatto che il frontaliere versa le imposte in Svizzera.
Un'altra ipotesi è quella di favorire il rientro dei frontalieri. Infatti, approssimandosi l'età pensionabile, il lavoratore, ancora professionalmente interessante per le imprese, potrebbe essere invogliato a fare ritorno in Italia dalle opportunità di conseguire qualche beneficio sui trattamenti di quiescenza. Agire con la leva della ricongiunzione dei contributi pensionistici potrebbe far riacquisire alle imprese italiane, anche se per qualche anno soltanto, l'esperienza maturata oltre frontiera con qualche vantaggio per il nostro sistema economico.
Ma, come si vede, si tratta in tutti i casi di ipotesi che si collocano all'interno di una logica di contrapposizione fra i sistemi economici al di qua e al di là del confine. Probabilmente, occorre pensare in positivo, anziché in negativo. Occorre pensare a come fare sinergia fra Cantone Ticino e aree italiane di frontiera per valorizzare le opportunità comuni e muoversi, tutti insieme, tenendo conto che la continuità geografica, la lingua comune e le tradizioni comuni possono essere elementi su cui fondare una cooperazione. Piuttosto che alzare un muro e contrapporsi, è forse giunto il momento di unirsi e di sviluppare un progetto di integrazione di sistemi e di marketing territoriale per valorizzare le risorse strategiche che accomunano.
L'obiettivo deve essere quello di allargare la torta anziché di accaparrarsi le briciole. C'è un dato del mercato del lavoro che accomuna Italia e Cantone Ticino: il tasso di occupazione (quello italiano è del 52%), rispetto alla media europea (60%), lascia ancora margini per un aumento del bacino occupazionale. Si devono allora sviluppare iniziative in comune per invogliare i cittadini, in quest'area insubrica molto attrattiva, a entrare nel mondo produttivo. L'obiettivo, in altri termini, non può essere altro che quello dello sviluppo complessivo dei due sistemi economici.

11/15/2001

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