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Telemaco: diventare grandi

Si dice che l'Odissea sia il romanzo della nostalgia e dell'età adulta. Ma i timori, le speranze e i dubbi espressi da Omero attraverso il personaggio del figlio di Ulisse, Telemaco - raccontato qui da Luisa Negri, giornalista e critica d'arte, in un immaginario colloquio col padre - sono gli stessi di tutti i giovani che, oggi come ieri, si preparano a reggere il timone della propria vita in mare aperto.

Ho trascorso lunghi anni, padre, attendendo e sperando invano che il favore del vento concedesse alla tua nave il ritorno ad Itaca. Correvo al porto, già di primo mattino, e la sera scrutavo il mare arrossato dal sole, frugavo con gli occhi la lama d'oro della sua superficie, in cerca della nave che ti doveva ricondurre da Penelope mia madre e tua sposa, e da me, da tuo figlio Telemaco, cresciuto senza il saldo conforto delle braccia paterne. Avevo però imparato ad amarti attraverso le parole e il ricordo di chi ti aveva stimato e conosciuto. Mi dicevano i migliori tra gli amici - ma anche i servi e le ancelle, per prima Euriclea, la fedele nutrice - del tuo senno e del tuo ardire, della tua clemenza e della tua giustizia. Virtù che per troppo tempo ho temuto di non poter coltivare in me, mancandomi l'esempio della tua vicinanza. Per te Penelope ogni giorno rinnovava sacrifici, bruciando sale e orzo nei bruni canestri. Per anni ho assistito, impotente, mentre piangendo supplicava gli dei che ti fosse dato di riabbracciarci e di porre fine con le armi all'invadenza dei Proci, i tristi usurpatori della nostra dimora e della nostra libertà. Avrebbero voluto dominare, se non glielo avessimo impedito, anche i nostri affetti.
Il profumo dei sacrifici offerti da mia madre penetrava nelle sale della reggia, e, prima di sperdersi nel cielo d'Itaca, invadeva il cuore di ciascuno di intensa nostalgia. E' stato così per troppi anni.
Finché, cresciuto nel corpo, forte dell'incitamento di Atena, la figlia di Zeus dagli occhi azzurrini, decisi ch'era giunta l'ora di partire in cerca di tue notizie. Ma ero io stesso ormai convinto di lasciarmi l'infanzia e ogni incertezza alle spalle per raccogliere il seme che tu avevi gettato. Volevo dimostrare che il coraggio e l'intraprendenza di Ulisse erano anche nel mio cuore. E dovevo finalmente sapere se fosse ancora possibile sperare nel tuo ritorno. Oppure bisognava ammettere che il destino, che ti aveva risparmiato nella guerra di Ilio, s'era accanito contro di te sulla via del ritorno?
Così padre, ho preso anch'io la mia nave, l'ho rifornita di anfore di rosso vino e otri di candide farine, e sono salpato. Venivo a cercarti, affrontando, con i migliori tra i giovani di Itaca, quelle stesse onde che tu avevi solcato per l'ultima volta lasciandomi ancora in fasce.
Il vento gonfiava nel mezzo le vele e l'azzurro mare rumoreggiava attorno alla carena, mentre la nave correva in direzione di Pilo, la città fondata da Neléo. E io mi domandavo, pieno di dubbi, quali venti avevano spinto la tua nave tenendola lontano da noi per tanti anni. Quale vento mai aveva prevalso, quale era stato più forte degli altri, così forte da costringerti a rimandare di tanto il ritorno? Quello della dimenticanza, che rende immemori dell'amore per la famiglia e la patria, oppure quello della necessità di conoscere altre genti e altri paesi? O quello di chi, pur volendo fermarsi, sa di dover rimandare il desiderato approdo, perché sai più sicuro e più conveniente per tutti il domani?
Non ti volevo certo giudicare, padre, ma desideravo capire. Ne avevo bisogno, per dare anche a me più solide ragioni della necessità di crescere e di somigliare a te, di "correre dietro la tua fama" - come mi spronava Atena - ancor più di diventare uomo degno, pieno di saggezza e di ardire. Non posso nasconderti, padre, di avere anche un po' temuto il tuo ritorno, il confronto con te, perché ti dicevano capace, sempre, di portare a compimento ogni cosa detta o intrapresa.
Poi giunsi a Sparta, dal prode re Menelao, dove compresi che eri sfuggito alla morte e presto saresti tornato a noi. Confortato dalla speranza rientrai dunque in patria, e lì ti trovai. Ti avevano ricondotto sulla spiaggia di Itaca i pacifici Feaci.
Non indossavi la veste regale di porpora e oro, ma pur sotto i cenci da mendicante, imposti da Atena perché non ti riconoscessero i Proci, vidi in te un ospite nobile e saggio. Quando infine ti rivelasti, ci abbracciammo piangendo, come padre e figlio.
Ora Itaca ha di nuovo il suo signore, Penelope lo sposo, e io il padre. Spero per la nostra cara terra, e per noi, nuovi giorni. Sappiamo però tutti e due che prima di poterci sedere attorno al fuoco in serenità, davanti ai calici ricolmi di rosso vino e ai fragranti pani, nuove difficoltà ci attendono. Ma non dubitare di me, perché io stesso oggi non dubito più della mia mano ferma né della mia risoluta volontà. Ho voglia di mettere a frutto i miei talenti. Sono pronto, padre.

11/06/2006

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