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Il piccolo lago sorridente

Alla riscoperta del lago di Varese: attraverso i suoi colori e le forme e le parole di quanti lo conobbero, lo amarono e continuano ad amarlo. E, non ultimo, attraverso le pagine che il Touring Club Italiano ha dedicato, sulla famosa Guida e sul suo mensile, alla provincia di Varese.


Attendetelo all'imbrunire, nei giorni quieti di giugno, quando l'airone plana a ponente per scomparire nel canneto e i gabbiani si rincorrono alti, danzando nell'aria appena spessa. Capita di vedere il nibbio picchiare davanti al molo di Cazzago e ritornare su con la preda tra gli artigli o di ammirare le eleganti parate nuziali degli svassi, con il maschio a regalare un'alga alla compagna, come pegno d'amore.
"Il lago di Varese, senz'essere un gran lago, merita di venir visitato", scriveva Luigi Brambilla in quelle straordinarie notizie su "Varese e il suo circondario" da lui raccolte e ordinate nel lontano 1874. "Questo lago, co' vicini laghetti veduti dall'alto, presenta all'occhio tale una scena d'incanto, che fa proclamare il Varesotto superiore alla deliziosa Brianza. Non sono io che il dice, bensì il brianzolo Cesare Cantù", chiosava il professore. Laghi che "ti spiegano davanti il limpido loro argento, tranquillo siccome l'alma del filosofo tra le agitazioni della vita".
La morbidezza del paesaggio e la delicata sfumatura cromatica della vegetazione rinsaldano l'animo anche di chi filosofo non è, specialmente oggi che la corsa frenetica al nulla ci costringe spesso a obliare i nostri sensi. Non quelli di viaggiatori e scrittori, che in passato hanno tessuto doverose lodi a questo "smiling little lake", il piccolo sorridente lago degli inglesi Richard Bagot e Laura Ragg, autori nel 1905 di una sapiente guida agli specchi d'acqua d'Italia.
Vien voglia di scoprirlo passo dopo passo il nostro lago, guidati dalla poesia del dire di chi lo ha amato e percorso, come Vincenzo Dandolo, che così lo tratteggiò nelle "Lettere a Erminia": "Il lago ti si distende dinnanzi: sono ridenti le alture, che lo circondano vestite di boschi, di villaggi, di case; una lieve auretta ne increspa la superficie; delle barchette lo solcano, lasciando dietro di sé una traccia luminosa". Andate a Voltorre allo schiudersi del mattino, sulla riva ombreggiata dagli ontani neri e dai salici, ritroverete la purezza del profilo dei monti, i campanili di Biandronno e Bardello, un tempo unico riferimento di barcaioli e viandanti, la sagoma formidabile del Rosa e le luci cangianti sulle acque, ora verdi ora turchesi, ammalianti come sirene.
Oppure visitate Cazzago Brabbia, con la Corte dei Pescatori, dove un tempo si tingevano le reti con il liquido di bollitura dei gusci di castagna, le vie strette e ritorte, il circolino dei giocatori di scopone raccontato da Ernesto Giorgetti, pescatore hemingwayano, in uno dei suoi romanzi nel cassetto. Il porticciolo, purtroppo assai degradato da stupidi vandalismi, riporta alla mente i canti delle lavandaie, che qui venivano a sciorinare i panni, sedute sui "sassoni", serpente roccioso a guardia del borgo. La sentinella oggi è Napoleone, magnifico soriano, capo della colonia di gatti di Cazzago, che Luigi Giorgetti, uno dei sette pescatori professionisti rimasti sul lago, alimenta con apposite catture di carassi e scardole.
Ma prima del pasto felino c'è quello dei gabbiani, altra tappa obbligata per Luigi sulla via del ritorno a terra. Con la barca compie un ampio giro nel golfo fino a sistemarsi in un punto ben visibile. Sono allora si materializzano dieci, venti gabbiani e incominciano il loro carosello sopra la testa del "Negher", che intanto getta per aria scarti di pesce. E' una sarabanda di pochi minuti, i gabbiani gridano e beccano, raccogliendo al volo teste e interiora per poi sparire all'improvviso, dietro la punta di Bodio. I gatti, immobili, attendono il loro turno all'ombra dei salici, tanto sanno che Luigi non tarderà con il secchio delle scardole.
Poco sopra il porticciolo spiccano i monumenti al ghiaccio che, fino ai primi anni del secondo dopoguerra, era una ricchezza insostituibile per i pescatori di Cazzago Brabbia, tanto da stiparlo in tre grandi "giazér", ghiacciaie dall'architettura simile a quella dei trulli pugliesi ma profonde una decina di metri e recentemente restaurate. Costruite verso la metà del 1700 e visibili lungo la strada sterrata che da Cazzago porta verso Cassinetta, accoglievano il ghiaccio del lago tagliato in lastroni con le scuri, agganciato e fatto scivolare a riva con pertiche munite di ganci. Una volta portato nella ghiacciaia con i carretti a cavalli, come scrive Lucina Caramella nel suo interessante volume dedicato ai grandi "frigoriferi di pietra", "veniva frantumato con le mazze, accumulato e pressato e ricoperto con stuoie di cannette; durava tutta l'estate ed era usato per la conservazione e la spedizione del pesce".
Cazzago Brabbia è un po' il simbolo della rinascita del lago di Varese, ristabilito da una lunga e penosa malattia, quella dell'inquinamento che lo ha paralizzato per quarant'anni. Nel 1975 era tra quelli più compromessi in Europa, devastato dagli scarichi civili e industriali del capoluogo e dei comuni rivieraschi, con un carico di rifiuti pari a quello di oltre 100 mila abitanti. Una lunga e costosa opera di depurazione, con il 95 % degli scarichi convogliati nel collettore di Gavirate, e la messa in opera degli impianti di ossigenazione curati dal Ccr di Ispra e Sogeiva, ha portato al recupero quasi totale del lago, ora di nuovo in parte balneabile. Se da un lato l'inquinamento ha allontanato il turismo dalle sponde, dall'altro le ha preservate dall'abusivismo edilizio e dalla cementificazione.
"A paragonarlo tale a una perla, si dice poco e non senza preziosità leziosa; per altro, il suo colore era quello; e mi pare di non aver mai vista, adunata in una conca di lago, una tanta effusione di luce perlacea, come quella che saliva e posava sulla viva quiete delle sue acque, mentre scendevo verso il lago per la proda lene del suo lato meridionale, che da cotesta parte è aperto e disteso, adagiato, coniugato col fondo. E ci sono viottoli e stradette antiche, piene di un garbo agreste e gentilmente austero, di quella naturale ritrosia che conferisce un carattere sobrio e segreto, di idillica rusticità, al paese subalpino lombardo e piemontese, non appena si esce dalle strade maestre".
Sono parole di Riccardo Bacchelli, che nel suo "Italia per terra e per mare" cattura il lato più introverso del lago, quello che induce al meditare, ad ascoltare il ritmo battuto del remo e i gridi misteriosi di uccelli tra le canne, a soffermare lo sguardo sulla bellezza composta dell'Isolino Virginia, "piantato di alberi, che vi protendono un verde perenne, alla cui ombra nei giorni autunnali si imbandiscono liete merende", ricorda ancora il Brambilla.
L'isolino, in tempi più antichi chiamato Isola Camilla dalla duchessa Litta Lomellini, passò quindi alla proprietà del marchese Ettore Ponti che lo battezzò Virginia in onore della moglie. È un'oasi di assoluta bellezza, con alberi esotici secolari messi a dimora dallo stesso marchese, circondata da distese di ninfee e nannufari dove nuotano folaghe e germani reali. Lo si raggiunge in barca oppure con il servizio di traghetto gestito dal ristoratore dell'isola Nico Redondi, con partenza dalla località "Strencia" a Biandronno.
Vengono in mente le descrizioni un po' ingenue del Bizzozero che nella sua guida descrittiva di "Varese e il suo territorio" ricorda le ottocentesche spedizioni all'isolino e dintorni del dottore Benesperando Quaglia e dell'Abate Stoppani, quello del "Belpaese", alla ricerca degli insediamenti palafitticoli: "Continuatesi dal prof. Stoppani le esplorazioni, le Stazioni aumentarono a cinque; tre sotto Bodio, dell'epoca della pietra levigata e del bronzo; un'altra a Cazzago dell'epoca della pietra; un'altra all'Isola dell'epoca della pietra levigata, abitata anche all'epoca del bronzo. In esse, estratte colla draga le masse di fango ora grigio, ora bianchiccio, a seconda della stazione, e passatele tra le dita o pel cribro si rinvenivano pezzi di carbone in gran copia, centinaia di frecce in selce di mirabile lavoro, coltelli, seghe, ed azze pure in selce ed in serpentino, denti ed ossa d'animali molti dei quali tagliati a coltello ed a punta…". Peccato che oggi il museo palafitticolo dell'Isolino Virginia sia davvero poca cosa, i reperti più importanti sono ai musei civici di Varese, anche se da qualche tempo si rileva di un interesse della Provincia a promuovere la cultura del lago su questo lembo di terra ricolmo di storia.
Accontentiamoci per il momento di ascoltare il tambureggiare del picchio rosso e il fischio del martin pescatore, abituali visitatori dell'isola e ammirare dal pontile il profilo frastagliato del Campo dei Fiori che si specchia nella acque "senza faa on sfriis". Quel lago che Carlo Linati, acuto cantore della terra lombarda, scrittore e viaggiatore, definì "aprico, solitario, meditante, e degno veramente del pennello del Magnasco, che lo ritrasse in una bellissima tela".
Ora che queste acque hanno ripreso quasi del tutto lo smalto originario, è fondamentale ricreare una cultura del lago con l'educazione civica di residenti e villeggianti, da intraprendere al più presto comune per comune, con corsi intensivi tenuti da "chi sa" veramente di lago. Naturalisti, letterati, storici, pittori, legislatori, pescatori, poeti, scienziati, canottieri si facciano avanti per far capire alla gente cosa vuol dire avere a disposizione una ricchezza come quella di un lago prealpino, con quale cautela ci si debba avvicinare alle sue rive, alla flora e alla fauna, quale straordinaria forza morale esca fuori da quelle acque - Carlo Linati scriveva: "L'acqua è la sapienza, la moralità della nostra terra" - prima che all'inquinamento chimico si sostituisca quello da stupidità e ignoranza, ben più insidioso e difficile da combattere.
Dimentichiamo, per favore, Schiranne Beach, acquafan, cartoline da Santo Domingo: quello di Varese, come ha scritto il poeta Romano Oldrini, gaviratese e per anni sindaco e animatore della vita culturale della cittadina lombarda "è un lago da meditazione" ("Nebbia come nutrice/giù sopra i canneti/ad alimentare mondi/di torba calcinata") da percorrere in barca a remi, a piedi o in bicicletta, lungo i sentieri che lo costeggiano. Viviamolo con passione e spensieratezza, come cent'anni fa, quando nei lunghi giorni di primavera si ritrovava con gioia un vecchio amico, e la fisarmonica univa cuori e sapori. "Eccoci intanto arrivati al piccolo cascinale, denominato la Schirana", narra il Brambilla, "dove liete brigate vengono a mangiar le tinche fresche, e vi lasciano cavalli e birocci per noleggiare una barca peschereccia, e vogare sulle acque tranquille del lago". Può essere ancora così, se lo vogliamo.

05/29/2003

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