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E il naufragar m’é dolce…

Un emozionante incontro con l’arte a Villa Panza di Varese, tra rustici e appartamenti padronali. A tre giorni dall’inaugurazione ufficiale, avvenuta il 12 settembre alla presenza delle massime autorità, tra cui il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il Ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri, Villa Menafoglio Litta Panza ha aperto i cancelli al pubblico. Anche noi siamo entrati, per raccontare ai lettori di Varesefocus una delle più belle realtà culturali e museali del territorio.

Dopo il primo sguardo d’insieme, quello del visitatore che incontra, e non senza emozione, la rinnovata dimora, ora proprietà del FAI, continueremo nei prossimi numeri della rivista a presentarvi nei dettagli le importanti collezioni della villa, i suoi antichi e preziosi arredi, il suo immenso parco ricco di essenze pregiate.

Il Presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi “Da qui spira il profumo dei santi di Dio” avverte in latino una scritta incisa su di una massiccia cornice lignea al primo piano. Parole antiche lasciate a bella posta, forse premonitrici. Non si entra a Villa Menafoglio Litta Panza senza uscirne almeno un po’ cambiati.
Chi mette piede qui si deve interrogare, soffrire la propria condizione umana, farsi a sua volta coinvolgere dal senso di un’operazione culturale che appare riduttivo chiamare così: perché per Giuseppe Panza il collezionismo espresso nella dimora varesina di famiglia dura da una vita, è la sua vita. E’ insomma un viaggio emozionante quello che s’intraprende nella villa di Biumo, circa un’ora e mezza di visita, ripartita tra i rustici e le stanze dei due piani padronali: il primo piano e il piano terra della “casa da nobile”, costruita a metà del diciottesimo secolo dal marchese Menafoglio, passata poi ai Litta Visconti Arese e, negli anni Trenta del secolo scorso, alla famiglia Panza.
La villa, 5.960 metri quadrati di superficie in un parco di 33.000, restaurata dal FAI nel massimo rispetto della sua storia su indicazioni dello stesso conte Panza, che al FAI l’ha donata nel 1996, appare al compiaciuto visitatore
perfetto incontro di arte e di storia, di presente e di passato, di monumentalità e di bellezze naturali, di collezioni che s’accostano le une alle altre in assoluta armonia. Perché armonioso è tutto l’insieme della villa.
Ogni cosa è da scoprire, ma anche da relazionare con quanto sta intorno: l’opera d’arte con la stanza e le suppellettili e gli arredi, l’antico con il nuovo, gli interni con l’esterno.
Mentre la vista spazia sull’immenso giardino di impianto settecentesco e, attraverso le grandi vetrate, corre a inquadrare, tra uno spicchio di cielo e il parterre di verde, la quercia che ha duecento anni, o la galleria della carpinata "un’opera della natura a sua volta trasformata in opera d’arte".
Impossibile riferire qui nei dettagli tutto quanto c’è nelle numerose stanze e nell’ampio parco di Villa Panza.
Nei prossimi numeri della rivista, come abbiamo annunciato, presenteremo via via le diverse collezioni e, da ultimo, il giardino. Per ora ricordiamo che, in sintesi, sono presenti: 133 opere di arte contemporanea americana eseguite tra gli anni Sessanta e Novanta; 105 mobili e oggetti di arredamento per lo più del XIX secolo dei Litta Visconti Arese; 84 mobili e oggetti di arredamento d’alta epoca e del secolo XVIII collezionati da Giuseppe Panza, così come le 21 opere di arte primaria (africana e precolombiana).


Le opere d’arte contemporanea appartengono a tre gruppi fondamentali: l’arte minimal di Flavin dei primi anni Sessanta, l’arte ambientale di Irwin, Turrel e Maria Nordman (fine anni Sessanta, inizio anni Settanta), alloggiate nei rustici, l’arte monocromatica di artisti degli anni Ottanta e Novanta come David Simpson, Phil Sims, Ruth Ann Fredenthal, Ford Beckman, Ettore Spalletti, Winston Roeth, Allan Graham - presenti nelle stanze padronali al primo e al piano terra della villa - e quella organica, il cui massimo esponente è l’artista afro-americano Martin Puryear.
Ma per prima cosa vogliamo innanzitutto raccontare che quando lasci Villa Panza - con dispiacere, perché c’è qualcosa, una specie di
malìa sottile, magica come gli antenati africani che s’accompagnano disinvoltamente agli arredi toscani cinquecenteschi della sala al primo piano, che ti attrae e ti far venir voglia di non andartene - certo un legame resta: quello per un’arte, l’arte contemporanea, che d’ora in avanti non puoi vedere con gli stessi occhi ingenui di prima. Non vale più l’operazione estetica pura, "l’ammirazione del bello", cui ci hanno abituati e ci abituano continuamente gli importanti musei d’Italia: con i visi dolcissimi delle nostre madonne, i vividi colori giotteschi, le delicatezze di Raffaello o di Bellini, l’arte geniale di Leonardo.
Quella di Giuseppe Panza è operazione di un collezionista che non colleziona per suscitare l’ammirazione del visitatore, né tanto meno per ragioni di mercato. Quando il conte accostò i suoi artisti, questi erano sconosciuti ai più e le loro opere non avevano ancora quotazioni elevate. Oggi sono riconosciuti quali affermati rappresentanti di un preciso momento della storia dell’arte americana, il Minimalismo e i movimenti ad esso collegati. Panza, ci pare, è un collezionista di vite e di vita, un collezionismo che scava dentro, che inquieta, genera dubbi, che parte dall’uomo e all’uomo e alla Storia riporta.

La voce del conte, mentre ti accompagna in cuffia per le 24 stanze padronali della dimora, divenute sede museale, ti richiama continuamente all’esistenza degli artisti che lui ha seguito, studiato, spiato nel loro lavoro: nello studio mediterraneo a Cappelle del Tavo dell’italiano Ettore Spalletti, tra cielo e mare, come nel deserto del New Mexico amato da Allan Graham. Ti offre le loro solitudini, ti sollecita a guardare alle loro vite, ti richiama al fatto che "non sappiamo quale sia il nostro fine ultimo", che la felicità che Max Kole ricerca, e invoca, e tesse nelle infinite, perfette righe tracciate a mano, linee fatte quasi preghiere, è in realtà imprendibile.
"Redini del cielo", "Mare dei sogni", "Uno ignoto uno", sono alcuni significativi titoli delle opere dell’artista californiano Allan Graham. Opere che sulle prime vorresti rifiutare per un impatto che non induce al compiacimento estetico, ma sa di irregolarità, di asperità, di opposizione ai canoni del bello e del normale.


Panza ha invece lungamente indagato e cercato nelle opere degli artisti che ha amato e seguito per anni, vuole che il visitatore si ammali a sua volta di questo amore, che accetti di capire senza voler sempre ricorrere all’esattezza della ragione.
L’incontro più emozionante, almeno per chi scrive, è nei rustici, dove un tempo abitavano serventi e cavalli - tanto che sui pavimenti sono rimasti i segni pesanti degli zoccoli - tra le ambientazioni di Flavin, di James Turrel, di Irwin (indispensabili qui le visite guidate, che si effettuano a rotazione continua): quando entri nelle stanze di Flavin, penetri anche nelle opere (a comporle sono tubi luminosi di produzione industriale dagli effetti inimma-ginabili, la cui luce occupa tutto lo spazio disponibile), senti di essere chiamato a condividere, o rifiutare, i sentimenti dell’artista. Si veda il divertente "Varese Corridor", dalle luci cangianti.
Si veda la stanza con la luce rossa, avvolgente e sconvolgente, dei tubi a forma di croce rovesciata.
L’opera è dedicata al fratello di Flavin, morto in Vietnam; qui tutto appare alterato in una uniformità di visi e corpi e abiti, per significare il senso della morte che eguaglia ogni cosa.


Di analogo effetto l’altra sala rossa, che è monumento al poeta russo Majakovskij, sempre di Flavin. L’artista è presente a Biumo con la sua più ampia collezione di opere - dodici ambientazioni eseguite proprio per Villa Panza - e chi vuole conoscere questo tipo di arte e di collezionismo, unico al mondo, deve assolutamente venire qui.
Ma anche le finestre di Robert Irwin, volutamente aperte alle intemperie, in un continuum tra interno ed esterno, o lo "Sky space" di James Turrel, che spinge l’occhio verso il cielo, come la sorprendente e divertente scultura dell’artista afro-americano Puryear nella Scuderia grande, l’opera di maggior valore economico presente nella villa, suscitano emozioni nuove e indimenticabili.
Quanto alle stanze padronali dei due piani della villa, si sente ancora la presenza di chi li ha abitati.

Con le opere di Max Cole e Sims sono rimasti i ritratti nello studiolo al primo piano caro al conte, quello vicino al salotto e alla sala da pranzo, dove i Simpson vanno perfettamente d’accordo con le sculture dell’arte africana.
E’ una piccola stanza carica di atmosfera, non meno di quanto lo sia il sontuoso
Salone Impero al piano terra realizzato da Luigi Canonica e voluto da Pompeo Litta. Qui gli stucchi e i grandi specchi, come gli eleganti soffitti e pavimenti, per nulla soffrono della presenza dei grandi quadri, ancora opera di Simpson. E il ricordo di immaginabili sfarzi trascorsi, da rivivere con la fantasia in quello spazio tutto da godere e riempire, dove il ricchissimo Litta radunava il bel mondo convenuto sul colle di Biumo per concerti e grandi eventi, si smorza e ricompone di nuovo nel quieto Salottino della carpinata.

I due Beckman contrapposti - due aree quadrate, l’una bianca e l’altra nera, incorniciate da pallide fasce cromatiche - richiamano al senso della vita e della morte, dell’umana imperfezione. Ma anche alla speranza. Come è messaggio di speranza lo sguardo che corre alla porta finestra e da lì, attraverso la verde galleria della carpinata, sbuca a rivedere la luce dell’immenso giardino.

11/06/2000

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