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Foris Portas del Castello

Un viaggio virtuale tra le rovine di uno dei più memorabili castelli dell'altomedioevo italiano e i bellissimi cicli pittorici della chiesa di Santa Maria Foris Portas.


Dopo l'introduzione al tema delle vicende storico-artistiche dell'altomedioevo nel territorio dell'attuale provincia di Varese (Varesefocus n. 3/2001), un approfondimento sull'argomento che costituisce il punto di richiamo di maggior risalto non solo nell'ambito milanese e lombardo, ma addirittura europeo.
Il toponimo Castel Seprio merita una certa considerazione perché da solo racconta la storia del sito. Seprio è termine celtico che deriva da sego = forte, vigoroso e brigum = rocca, quindi in sé è parola che significa "roccaforte", di modo che dire Castel Seprio equivale ad esprimere con modo rafforzativo lo stesso concetto iniziale.
La roccaforte all'età dei Longobardi divenne il centro del contado del quale abbiamo già scritto. Tutto lascia immaginare che si dovesse trattare di un luogo fortificato di grande evidenza ed efficienza, dal quale si poteva tenere sotto controllo, a 360 gradi, una estesa area del territorio prealpino.
Chi oggi raggiunge quel Seprio non si rende conto di quale ruolo rilevante esso abbia avuto, perché fatica a trovarlo: deve uscire dal paese oggi denominato Castelseprio, addentrarsi in una zona periferica, di boschi, e quando finalmente si trova all'ingresso del Castello non ne vede le impronte guerresche, in quanto domina l'ambiente vegetale.
La prima operazione da compiere, in modo affatto virtuale, è quella di immaginare di trovarsi in un'area senza piante, recuperando in tal modo la qualità essenziale del sito, la sua posizione discretamente rilevata sulle terre circostanti, che lo poneva in vista da tutt'intorno, ed il suo effetto a terrazzo che guarda sulla sottostante valle dell'Olona, dove s'impianta la possente torre di Torba.
Solo così si può intendere il segno lasciato nel terreno dai piloni sui quali s'impiantava il ponte di legno che serviva per entrare nella cinta fortificata del Castello, rendendosi altresì conto di dover rilevare un breve fossato che si estendeva nell'unica parte direttamente accessibile dalle terre vicine, giacchè le altre porzioni del colle sono quelle che digradano verso valle.
Entrati così nel vero e proprio Castello, ci guardiamo intorno per trovare i margini, il recinto delle mura e l'emergenza delle torri, convinti di stare al chiuso, al sicuro, specialmente se abbiamo fatto esperienza dei castelli della vicina Bellinzona, per non salire fino a quelli della Val d'Aosta.
Vediamo soltanto muraglie smozzicate elevarsi senza apparente ordine da un terreno erboso che sicuramente non apparteneva alla situazione originale.
Superato l'ovvio sconcerto, riusciamo ad avvertire l'impronta di un edificio, il primo che abbiamo proprio di fronte all'ingresso dell'area archeologica: è la Basilica di San Giovanni evangelista, della quale si notano le pareti laterali e quasi al completo quelle absidali, meglio apprezzabili se si compie il giro della chiesa e ci si porta sul retro.
Ma perché questa rovina? Alla più che lecita domanda daremo due risposte di seguito. La prima è che nel 1287 il Vescovo di Milano, Ottone Visconti, in continua lotta con i comaschi Torriani per il controllo del territorio e per il possesso di Seprio, chiave di volta della difesa della zona, proditoriamente s'impossessò della rocca, togliendo di mezzo Guido da Castiglione che ne era divenuto signore, e la fece radere al suolo per essere sicuro che nessuno alle sue spalle lo potesse più insidiare. Pur nella sua devastante durezza il Visconti avrà avuto ragione, ma da Vescovo fece anche distruggere le chiese? Questo no, per fortuna. La seconda è che ci pensarono, più tardi, gli uomini, e senza più motivazioni accettabili per via degli equilibri di dominio sul territorio. Toccò ad un altro Vescovo di Milano, Carlo Borromeo, di decretare indirettamente la fine di Seprio quando, nel 1582, trasferì la prepositura nella vicina Carnago. Prese così avvio il lento, inarrestabile abbandono delle sue chiese, alcune delle quali, nel tardo Ottocento, furono aggredite e demolite perché i sassi delle loro muraglie servirono per costruire altri edifici, ad esempio proprio la chiesa nuova del paese ed anche talune case. Ecco perché la basilica di San Giovanni Evangelista, sopravvissuta alla distruzione dei Visconti, è ridotta come si vede e pensare che si trattava di una costruzione stimata dei secoli V-VI, alla quale fu aggiunta la forte abside marcata da due ordini di grandi finestre ancora di impianto paleocristiano, edificata forse nel VII secolo.
Sarebbe stata una testimonianza monumentale senz'altro insigne, oltre che rara, perché mentre le chiese milanesi coeve spiccano del rosso del mattone, la nostra s'impiantava nella rude veste di ciottoli grigio-argentei-rosso-ocra che avrebbe fatto risaltare l'ormai desolato interno del Castello.
Più in là, sulla destra, si trovano le rovine della chiesa romanica di San Paolo: un edificio di altrettanto rara architettura, a pianta centrale, che doveva essere coperto da robuste e grevi volte a crociera, datato XII secolo.
Una mesta peregrinazione entro il circuito del Castello vi condurrà a rinvenire le tracce delle muraglie e delle torri che avvedutamente i cartelli segnalatori individuano e posizionano nel rilievo dell'impianto originale di Seprio, uno dei più memorabili castelli dell'altomedioevo italiano: un'avventura virtuale che vale la pena di tentare.
Migliore sorte vi toccherà se raggiungerete la chiesetta di Santa Maria Foris Portas.
Ritornando sui vostri passi, superato il posto di guardia, non del Castello ma dei custodi, bisognerà prendere la strada in terra battuta che s'infila sulla destra, passare entro la boscaglia, che va virtualmente eliminata, raggiungere un bivio e salire a sinistra per trovarvi al piede di un rialzo di terra sul quale è edificata la chiesa, che per trovarsi lontano dal Castello era per l'appunto detta "fuori delle porte".
Sia la strada sia la chiesetta sono indizi di una antica situazione ambientale, in quanto la prima segnava il percorso lungo il quale si movevano pellegrini e mercanti in discesa dalle terre prealpine e dalle valli del Ceresio; la seconda costituiva un punto di riferimento e di ospitalità per gli stessi.
Rilevantissima è la sua dedicazione: Santa Maria, sottolineava, e pur sottolinea, un costante richiamo al ruolo salvifico della Vergine, che, tappa per tappa, connetteva Milano a Santa Maria del Monte, cioè il centro della diocesi ambrosiana con quel monte sul quale Ambrogio aveva sconfitto le ultime resistenze degli Ariani, ed ancor oggi ne fa memoria a chi si sofferma a pensarci.
Una chiesa non chiusa entro le mura del castello ma aperta al viandante. Una chiesa, dunque, nella quale accogliere e fare catechesi. Ecco la ragione prima per la quale nell'abside centrale vi sono affreschi miracolosamente scampati alla furia devastante degli uomini e dei tempi dei quali vi diremo tra poco.
Prima qualcosa sull'architettura, perché anch'essa è rara e si data ad epoca assai alta, cioè circa al V-VI secolo. E' un edificio ad aula con tre absidi, che cela nella apparente povertà delle sue murature un messaggio sia spaziale sia simbolico rilevante, forse spiegabile con un richiamo al mistero trinitario, che non sarebbe improprio riferito ai tempi nei quali queste terre non erano ancora del tutto evangelizzate e segnate dall'eresia ariana. Ricordatevi che siamo alle soglie della caduta dell'Impero Romano e delle invasioni barbariche. Poi degli affreschi. Essi propongono immagini fortemente incisive, realistiche, che raccontano episodi dell'infanzia di Cristo.
Un ciclo anch'esso raro, scelto sicuramente per mettere in risalto il ruolo fondamentale della Madre, di Maria, cui è dedicata la chiesa. Maria è proposta nella sua figura di donna, di modo che chiunque la vedesse ne potesse apprezzare la realtà e l'umanità.
Ad esempio v'è un episodio nel quale si vede che Maria attinge dell'acqua da un prezioso vaso che il sacerdote le porge. E' la prova delle acque amare, prescritta dalla legge ebraica per accertare che le donne non avessero perduta la verginità, della quale non si parla nei Vangeli Canonici ma in quelli apocrifi, nei quali si cercava di esprimere momenti e comportamenti più vicini e consoni alla vita quotidiana, insomma meno divini ma ai quali era più facile accostarsi.
Nel "Viaggio a Betlemme", uno degli affreschi meglio conservati, si ha la certezza di vedere la Madonna in groppa all'animale che tirato per il morso esce da una porta di una città mentre Giuseppe, che sembra anziano e a fatica si appoggia ad un bastone, le sta venendo dietro. La luce modella le figure, proietta ombre sul terreno; lo spazio è costruito in modo che sia l'animale sia le mura e le case vi trovino posto. Tutto ciò può sembrare ovvio ma bisogna ricordare che la pittura dell'altomedioevo per solito si esprimeva in mosaici e con forme stilizzate, mentre queste si rendono benissimo evidenti e si fanno capire, come se il committente dell'opera ed il pittore avessero dovuto parlare chiaro a persone non colte, ma da educare ed evangelizzare.
Ciò fa pensare che il ciclo pittorico risalga ai tempi dei Longobardi, cioè circa al VII-VIII secolo, quando la chiesa romana aveva sostenuto con forza il culto mariano, istituendo feste che sottolineavano i dati umani della Vergine: nascita (8 settembre), inizio della natività (25 marzo, o festa dell'Annunciazione), assunzione (15 agosto), ecc.
Nella "Natività" la Madonna è fatta vedere coma una donna che, avendo da poco partorito, sta distesa sul letto ed intanto che si riposa osserva le due ancelle che provvedono a lavare il bambino.
Il pittore è di grande rango; disegna con estrema eleganza forme persuasive; le costruisce con colori smaglianti che sono rimasti miracolosamente conservati sotto calce nei secoli fino a quando riapparvero agli occhi di Giampiero Bognetti che li riscoprì nel 1944 consentendo con questa formidabile scoperta di aprire un incredibile percorso verso l'altomedioevo che stava celato e nascosto nei boschi di Castelseprio, e facendo conoscere una testimonianza unica e rara nella storia dell'arte europea.

06/21/2001

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