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+ innovazione (non solo tecnologica) = + competitività

Innovare per competere? La risposta è nella storia: nessuna posizione di mercato può essere difesa staticamente ma va conquistata come punto di arrivo di una scalata. Senza quella paura del futuro che troppo spesso, nel nostro paese, ostacola il cambiamento.


Innovare per competere oggi è un assioma nel mondo imprenditoriale, ma lo è stato sin da quando l'industria si è affermata come modello produttivo vincente. Gli epigoni della rivoluzione industriale con i loro telai meccanici sbaragliavano le produzioni tradizionali. Non era difficile per gli inglesi di fine Settecento proclamarsi a favore della libera concorrenza: avevano un vantaggio insuperabile rispetto ai produttori tradizionali e potevano invaderne i mercati. Inoltre i loro bassi costi allargavano la platea dei potenziali compratori. Per tutto l'Ottocento il meccanismo lavorò benissimo; altri paesi entrarono a far parte dell'area industrializzata, che tuttavia continuò a riguardare una minoranza dell'umanità. Durante il Novecento nuove rivoluzioni si sovrapposero alla prima: l'elettricità, l'automobile, le telecomunicazioni e l'informatica. Ma per quasi tutto il secolo la maggior parte dell'umanità continuò a rimanere ai margini del processo di sviluppo, anche a causa delle guerre mondiali e del sistema coloniale prima, poi della guerra fredda.
Gli eventi della fine del Novecento hanno drammaticamente cambiato la prospettiva. E' scoppiata la pace: instabile, minacciata da tensioni di ogni genere, ma sufficiente a lasciar sviluppare i traffici e a indurre le imprese a investire secondo la convenienza, in ogni parte del mondo. Negli ultimi due decenni il commercio mondiale è cresciuto mediamente a tassi all'incirca doppi rispetto al prodotto lordo. Ad esso si sono affiancati gli Investimenti Diretti all'Estero (IDE) con i quali le imprese dei paesi sviluppati hanno portato direttamente nei paesi in via di sviluppo i propri impianti, le tecnologie, il capitale, i marchi e il know-how operativo. Tutte queste risorse sono state immesse allo scopo di poter usufruire di ciò che quei paesi offrono: centinaia di milioni di persone finora escluse dalla divisione internazionale del lavoro, che grazie agli IDE possono trasformarsi in lavoratori fortemente competitivi e, successivamente, dar luogo allo sviluppo di immensi mercati di consumo. Con gli IDE nei paesi emergenti le imprese dei paesi sviluppati cercano la competitività immediata, grazie ai bassi costi del lavoro, e coltivano la loro presenza sui mercati del futuro, che già oggi crescono a tassi impressionanti.
Lo scenario dei mercati mondiali sta così evolvendo molto rapidamente. Da un punto di vista geografico, una quota importante delle produzioni si sposta verso i paesi emergenti più popolati, sia per sostituire le importazioni con produzioni locali, sia per farne la base di produzioni a basso costo destinate ad essere esportate nei paesi a costi più elevati. Dal punto di vista merceologico, gli sviluppi della tecnologia generano nuovi beni e servizi che si accaparrano una quota continuamente crescente del potere d'acquisto mondiale. In una situazione così mutevole una sola cosa è certa: nessuna posizione di mercato può essere difesa staticamente ma deve essere perseguita come punto di arrivo di una scalata. Scalata a nuovi mercati geografici, a nuovi prodotti, a nuove combinazioni produttive, eventualmente a combinazioni collaborative con i produttori emergenti. La competizione è quindi fatta di innovazione, se a questo termine si dà un significato ampio, non esclusivamente tecnologico.
Gian Maria Gros-PietroAlcuni giudicano la distribuzione dimensionale delle imprese italiane non idonea a una competizione a vasto raggio geografico e ad alto contenuto di investimenti in tecnologia. In effetti le piccole strutture organizzative, che prevalgono in Italia, si trovano in difficoltà nel presidiare mercati geograficamente lontani o nel raccogliere risorse adeguate a innovazioni tecnologiche rilevanti e di successo. Va detto, tuttavia, che le nuove tecnologie delle telecomunicazioni hanno enormemente ampliato il raggio d'azione potenziale delle imprese piccole e medie e che in tutti i campi delle tecnologie avanzate, dall'ingegneria genetica ai nanomateriali tanto per fare due esempi, gli innovatori più fertili sono quelli di piccole dimensioni. Non c'è nulla che escluda le piccole e medie imprese dai mercati del futuro, anzi esse ne sono un elemento essenziale. Ma lo sono nell'ambito di un sistema che prevede anche altri protagonisti indispensabili. In primo luogo le imprese grandi, che originano le tecnologie di base, sia sviluppando in modo sistematico le aperture magari individuate da operatori minori, sia fornendo esse stesse l'architettura sulla quale migliaia di applicatori opereranno in modo simbiotico con la grande impresa. In secondo luogo gli istituti di ricerca, dai quali deve essere possibile estrarre, quando se ne presenta l'opportunità commerciale, le conoscenze suscettibili di produrre valore. In terzo luogo le istituzioni finanziarie capaci di selezionare gli investimenti meritevoli, in un campo di non semplice valutazione come quello innovativo.
Può sembrare che si tratti di attività per le quali il nostro paese non dispone di sufficienti capacità. Non è così; basta considerare quanti giovani manager e scienziati italiani svolgono all'estero, in posizioni di vertice, esattamente queste mansioni. Non hanno trovato in Italia adeguata collocazione perché per troppo tempo nel nostro paese hanno prevalso situazioni normative, fiscali e sociali che hanno indotto le imprese e rimanere piccole e a dedicarsi in prevalenza a prodotti compatibili con questa dimensione. Il portafoglio industriale del made in Italy attuale è il frutto, non la causa, della struttura industriale. Se si rimuovono le cause istituzionali, fiscali, sociali che hanno indotto le imprese al nanismo si permetterà ai nostri imprenditori di muoversi alla conquista delle opportunità offerte dai mercati in movimento. Non dobbiamo temere che non ci riescano, visto quello che hanno saputo fare con i vincoli del passato. Non dobbiamo temere che manchino le professionalità, vista la diaspora di cervelli che abbiamo sinora alimentato. Dobbiamo temere soltanto la paura del futuro che troppo spesso nel nostro paese ostacola il cambiamento.

11/20/2003

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