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I paradossi medio-orientali

Il conflitto israelo-palestinese è al centro della preoccupazione e dell'interesse di tutto il mondo e ha rivelato una certa difficoltà da parte degli Stati europei ad avere una posizione chiara e decisa in merito.

Un grande senso di impotenza. Che unisce l'Europa delle grandi tradizioni storiche e culturali con l'Europa che cerca di ricostruire sul mercato e la solidarietà una nuova dimensione unitaria. Di fronte al dramma del Medio Oriente, all'escalation di violenza tra israeliani e palestinesi, il Vecchio continente è sembrato infatti esprimere solo una stanca retorica dei sentimenti. I richiami formali contro la guerra si sono uniti a iniziative diplomatiche di scarso peso: la regola dell'equidistanza, dell'uguale condanna per i due popoli che si confrontano, ha preso il sopravvento sulla volontà o meglio sulla necessità di trovare soluzioni costruttive e capaci di far superare cinquant'anni di conflitti. E così un'Europa che non riesce ad esprimere una chiara politica estera e che semplicemente non esiste come potenza militare è apparsa e appare disarmata anche sotto il profilo culturale, incapace di cogliere i fermenti positivi che possono contrassegnare le relazioni tra gli Stati. Non va certo dimenticato che gli eventi degli ultimi mesi hanno incredibilmente complicato la questione palestinese. Gli attentati dell'11 settembre e la successiva campagna di guerra in Afghanistan, hanno profondamente modificato lo stesso clima di collaborazione attiva che aveva permesso la grande alleanza contro il regime di Saddam Hussein. Soprattutto all'interno dei paesi islamici il contrasto tra moderati e fondamentalisti ha di fatto impedito il consolidamento di una visione strategica comune non solo per le alleanze esterne, ma anche e forse soprattutto, per gli equilibri di potere all'interno dei singoli Governi. Lo ha dimostrato il faticoso cammino del piano di pace saudita, lo ha dimostrato il fallimento del vertice della Lega araba a fine marzo a Beirut, lo hanno dimostrato le tensioni interne e le manifestazioni di piazza che spesso sono sfociate in espressioni di aperto quanto deprecabile antisemitismo.
I Paesi arabi non sembrano riuscire a risolvere il paradosso di avere fianco a fianco le ricchezze più grandi del mondo, per merito delle rendite petrolifere, e zone vastissime di povertà endemica e di condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza. Lo stesso paradosso che si vive tra Israele e palestinesi, tra una nazione che ha sposato in pieno i modelli di vita occidentali e che continua ad avere a fianco la disperazione dei campi profughi e i villaggi isolati dal resto del mondo.
Ma il confronto non è solo quello tra ricchezza e povertà: lo sviluppo è una condizione certamente necessaria, ma non sufficiente ad assicurare il superamento dei conflitti e del terrorismo. Alla radice dell'odio ci può essere l'invidia del benessere altrui, ma molto più spesso c'è una dimensione culturale incapace di riconoscere il valore della persona e della libertà. Possiamo chiamarla in tanti modi, ma resta al fondo la volontà di dominio, una intolleranza intellettuale che può e deve essere combattuta con la ragione piuttosto che con le armi.
Ed è proprio su questo piano che l'Europa si è mostrata e resta timida e incerta: perché alla dimensione dei mercati non ha saputo ancora aggiungere e soprattutto esprimere, quell'unità culturale che deve essere la base per una leadership riconosciuta a livello internazionale. E per di più l'Europa è apparsa timida e incerta anche perché è sembrata far prevalere le, pur giustificabili, ragioni dell'economia su quelle forse meno definibili, ma certamente più rilevanti, dell'umanità. Il conflitto medio-orientale ha riproposto ancora una volta, così come all'inizio degli anni '70, il tema della pesante dipendenza energetica dell'Europa dai paesi produttori dell'altra sponda del Mediterraneo e del Golfo Persico. Il petrolio dei Paesi arabi, soprattutto se a buon prezzo, è un elemento di base su cui il Vecchio continente continua a fondare gran parte dei propri equilibri non solo economici, ma anche sociali. Secondo le stime più accreditate un prezzo del petrolio oltre i 30 dollari al barile costituirebbe un elemento tale da annullare le attualmente favorevoli prospettive di crescita per i prossimi mesi. E se si aggiunge il fatto che proprio la crescita della domanda di fonti energetiche derivanti dalla maggiore attività economica è essa stessa un motivo di tensione sui prezzi si ottiene l'estrema delicatezza di un fattore vitale per le economie di piccoli e grandi Paesi.
Ma gli interessi dell'economia possono diventare interessi di tutti solo se sapranno attuare quella moltiplicazione della ricchezza che sta alla base anche della stessa possibilità di distribuire parte di questa ricchezza per affrontare solidalmente i problemi di equità.
Su questo piano l'Europa può certamente giocare un ruolo importante: ma dovrà ritrovare il coraggio di unire ai valori del mercato una convinzione culturale fondata sulle forti radici della civiltà comune.

05/09/2002

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