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Al-Jihaad, la guerra santa di (alcuni) musulmani

Ogni serio musulmano dovrebbe attingere all’interiore, fonte della fede, per poter gestire meglio l’esteriore, il mondo, e non farsi dominare da esso. Al-Jihaad dovrebbe essere una lotta all’interno della personalità del fedele per superare le proprie paure, angosce, tentazioni… come mai, allora, è sempre sinonimo di guerra, lacrime e sangue?

La strage degli innocenti (New York, 11 settembre 2001), presumibilmente ad opera dei terroristi di matrice medio-orientale, ha riportato in evidenza una nozione che trae le sue origini dalla grande tradizione islamica: al-Jihaad ("gihaad" con "h" ben pronunciata), tradotta superficialmente come "la guerra santa".
E’ usata (abusata) da un’eterogenea galassia di organizzazioni e gruppi che professano la fede islamica e che spesso sono in rapporti conflittuali con i gruppi o regimi non-islamici. Storicamente al-Jihaad è stato un potente strumento di mobilitazione delle masse musulmane, specialmente quando l’antagonismo si rivolge verso gli altri, ovvero i non-musulmani, siano essi "genti del Libro rivelato" (a’hl-al-Kitaab) della stessa tradizione monoteista semitica - come gli ebrei o i cristiani, ritenuti inferiori ma tollerabili, soggetti ad una sottomissione - o persone politeiste pagane (al-Qafir) - come gli indù-buddisti, taoisti/ confucianisti, animisti, tribali, ritenuti ignobili e quindi soggetti anche alla conversione forzata. Spesso al-Jihaad è stato invocato per prevalere sui primi e per eliminare i secondi. In verità, è un concetto assai complesso e carico di significati molto profondi. La tradizione metafisica e mistica dell’Islam distingue due chiavi di interpretazione del Verbo (il Corano, al-Quraan): l’esteriore (al-Zaahir) e l’interiore (al-Baatin). Secondo la tradizione, ogni serio musulmano dovrebbe sforzarsi di attingere all’interiore (la fonte della fede) per poter gestire meglio l’esteriore (il mondo-mondanità, compresa la politica, l’economia, la guerra) e non farsi dominare da esso.
Seguendo questo ragionamento, al-Jihaad sarebbe uno sforzo consapevole ed intenso, un impegno interiore, un travaglio o una lotta all’interno della personalità del fedele (Muslim), per superare le proprie "prigioni" (paure, angosce, tentazioni, ingordigia, egoismi, disperazione).
Ma allora, come mai al-Jihaad è sempre sinonimo di guerra armata, con sangue e lacrime, contro gli altri?
L’Islam è la più giovane tra le grandi tradizioni religiose-filosofiche dell’umanità. Ha appena 1.400 anni, mentre il Cristanesimo ne ha 2.000, la tradizione ebraica ne vanta 3.000, il Buddismo più di 2.500, altrettanti il Taoismo e il Confucianesimo, mentre l’Induismo è addirittura considerato la tradizione primordiale (il termine sanscrito Sanatana-Dharma, che è il nome originale della tradizione degli indù, significa "l’ordine di sempre"; i più antichi aforismi di Veda avrebbero più di 4.000 anni). Per questo, non dovrebbe sorprendere una certa vitalità, una certa emotività e, soprattutto, certe auto-convinzioni e ossessioni dei seguaci dell’Islam (Islam letteralmente vuol dire "la sottomissione a Dio"), relativamente la più giovane - se vogliamo, "infantile" - tra le comunità umane di fede. Basta ricordare com’erano le istituzioni e le comunità cristiane fino a pochi secoli fa; tuttora si possono incontrare alcuni cristiani che credono di appartenere ad un’unica, sola tradizione (Cristianesimo) con la verità totale. I musulmani considerano Maometto, il Profeta (Mohammed, al-Paigambar), come l’ultimo perfetto messaggero di Dio (Allah) e l’Islam come il sigillo definitivo (ultimo e perfetto) del ciclo di rivelazioni di cui fanno parte anche Abramo (Ibrahim), Mosè (Mousa) e Gesù Cristo (Isa, al-Massih). Con l’avvento della navigazione oceanica e delle prime industrie, gli occidentali hanno iniziato a prevalere sugli islamici, allora ricchi e colti rispetto agli europei. Negli ultimi tre secoli i bacini della cultura e del commercio, quindi anche delle relazioni inter-culturali, si sono spostati verso porti e città europee ed americane, a scapito dei bazaars di Medio Oriente e Asia Centrale, fioriti nei secoli con il commercio carovaniero tra Europa, Asia ed Africa. Prima il dominio coloniale europeo e poi le tecnologie americane (aviazione, telecomunicazioni) hanno sancito la supremazia dell’Occidente. Negli ultimi tre secoli i musulmani sono diventati spettatori ininfluenti nella cultura mondiale, meno influenti anche di altri mondi culturali non-occidentali (Cina, India, Giappone). Da esportatori di cultura, quali erano gli islamici fino ai tempi del Rinascimento europeo, sono diventati importatori di tutto (tranne petrolio e gas). Da intermediari privilegiati tra mondi culturali diversi (Cina, India ed il resto dell’Estremo Oriente da una parte, e il Mediterraneo e l’Occidente dall’altra) sono diventati un’appendice marginale del Vecchio Mondo. Se volessimo fare un bilancio sommario del XX secolo potremmo constatare che l’Occidente, pur con tutte le sue contraddizioni (e degenerazioni), ha prevalso in quasi tutti i settori dell’economia e della cultura nel mondo. Ma sono risorte e rivalutate anche altre grandi civiltà (non-islamiche) dell’Oriente, che hanno saputo stabilire buoni rapporti commerciali e culturali con l’Occidente: il Giappone, con il suo sviluppo industriale e tecnologico straordinario; la Cina, per il rapido e grande sviluppo economico e per la sua capacità di riadattare e riutilizzare il proprio know-how antico (agopuntura, feng-shui); l’India, per la stabilità politica, per lo sviluppo economico sostenuto, per l’eccellenza in tecnologie di informazione e comunicazione e, soprattutto, per la grande tenuta della cultura liberale pluralista (caso raro in tutto il mondo non-occidentale). E gli islamici? Nonostante le enormi ricchezze naturali (riserve di petrolio e gas naturali) ed un elevato reddito di alcuni paesi islamici, statisticamente parlando, i musulmani contemporanei appaiono totalmente dipendenti dagli altri in tutto - anche per estrarre, immagazzinare ed incanalare il loro petrolio e gas - e sembrano i grandi perdenti nella cultura mondiale contemporanea.
Non dovrebbe quindi sorprenderci la nostalgia di alcuni musulmani per il glorioso tempo perduto e per il senso di impotenza e rancore che provano nei confronti dell’Occidente (e anche dell’Oriente "pagano"). Anche regimi ed élite islamici, ritenuti servitori dell’interesse occidentale (nell’ottica occidentale, i cosiddetti regimi islamici "moderati"), trascurando le pie masse musulmane, sono nel mirino della rabbia di islamici radicali. Tutti gli esperimenti della modernità di matrice occidentale (il socialismo, il nazionalismo, il capitalismo) sembrano aver fallito nei paesi islamici, probabilmente per l’incompatibilità socio-culturale del modello di sviluppo, ma anche per l’auto-referenzialità, per l’incompetenza e per la corruzione delle leadership locali. Infatti, negli ultimi due decenni, i movimenti nazionalisti come Baath (oggi al potere in Siria e Iraq), al-Fatah (componente principale dell’OLP), pan-Arabisti nasseriani o gheddafiani - quasi tutti sinistreggianti e terzomondisti - hanno continuato a perdere terreno nel mondo islamico. Nello stesso periodo, i movimenti radicali tradizionalisti hanno trovato sempre più consenso, adepti e forza vitale (Repubblica Islamica dell’Iran, Hezbollah libanesi, FIS e GIA in Algeria, Jihad egiziana, Hamas palestinese, Taliban afghani, fondamentalisti pakistani).
Pare che vi sia un certo disincanto dalla modernità nel mondo musulmano. Come osserva Samuel Huntington ("The Clash of Civilization", 1993) la maggioranza dei musulmani contemporanei è convinta di possedere una cultura superiore ma di aver un peso (e potere) molto inferiore negli affari globali. I governanti del Pakistan, paese nato da una costola dell’India nel nome dei musulmani duri e puri (letteralmente "Pakistan" significa "la terra dei puri"), sono riusciti a farsi finanziare il loro progetto di armamenti nucleari da tanti paesi e organizzazioni islamiche diverse proprio nel nome dell’Islam. Per decenni, lo sforzo e la mobilitazione delle risorse per costruire la bomba atomica islamica sono stati una forma di Jihaad per avere tanto più peso e potere nel mondo quanto la presunta superiorità culturale. Oltre a molte lamentele più o meno giuste (per esempio, il diritto dei palestinesi), una delle buone ragioni dietro il vittimismo e il rancore dei musulmani nostri contemporanei è da ricercare proprio in questo disagio interiore: la (presunta) superiorità culturale e la (non meritata, dal loro punto di vista) inferiorità politico-economica. I musulmani sentono di avere perso il loro peso e prestigio con il progredire della modernità. Perciò sono ostili al simboli che la rappresentano, come le Twin Towers di New York.
Il dono che possono (forse devono) fare gli amici occidentali è di aiutare a risolvere alcune questioni politiche - ormai non più procrastinabili, come la questione palestinese - e l’arretratezza economica ed infrastrutturale. Soprattutto, possono cercare di stimolarli a riscoprire la dimensione interiore (al-Baatin) della loro tradizione, la vera fonte della loro fede (Islam) e, quindi, di spingerli a riformulare il loro Jihaad in senso verticale, verso l’interiorità. Solo così si otterrebbe la qualità delle persone e un grande sviluppo della creatività nel mondo islamico. Solo così avrebbe senso il cosiddetto dialogo inter-culturale o ecumenico, quale più importante contributo per la pace tra i popoli.

Per saperne di più:
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Dipak R. Pant, autore di questo articolo, originario del Nepal e cittadino italiano dal 1994, insegna Antropologia Applicata e Sistemi Economici Comparati presso l’Università Carlo Cattaneo di Castellanza e collabora da anni nella definizione delle attività formative del Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali. Tra le sue numerose pubblicazioni, segnaliamo "The Armenian Scenarios: Strategic Foresight of Security, Business and Culture in the Republic of Armenia", Crespi Editore, Busto Arsizio (Va), 2000.

10/18/2001

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