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La funzione sociale della libera impresa

Due opinioni a confronto sul tema delle relazioni tra impresa, etica e società. Un punto di vista laico e un altro che esprime invece il più attuale pensiero della Chiesa cattolica. Innocenzo Cipolletta, già direttore di Confindustria, attuale presidente della Marzotto e, prima ancora, docente di materie economiche nelle Università di Reggio Calabria, Firenze e LUISS di Roma. Flavio Felice, docente di "Dottrine Economiche: Scienza Economica e Dottrina Sociale della Chiesa" alla Pontificia Università Lateranense. Una base comune: l'impresa e il mercato racchiudono valori etici, nel rispetto delle regole e con al centro l'uomo.

IL VALORE ETICO DELL'IMPRESA
Parlare d'etica dell'impresa e del valore etico di un'economia di mercato in un momento come l'attuale ancora caratterizzato dagli scandali finanziari scoppiati nel mercato statunitense - di cui il caso Enron è il più emblematico - può sembrare fuori luogo. Eppure è proprio quando si osservano deviazioni che vale la pena di riflettere sui valori, proprio per capire se si è in presenza di eventi di natura accidentale o di una vera patologia.
Innanzi tutto occorre sottolineare come l'impresa non sia un fine a se stessa, ma un mezzo per conseguire una remunerazione dei fattori della produzione (lavoro e capitale) ed una soddisfazione dei bisogni dei clienti, il tutto nell'ambito delle regole stabilite dalla società attraverso le leggi, le regolamentazioni e le consuetudini che fanno una economia di mercato. Sarebbe lungo soffermarsi sul significato di ognuna delle espressioni qui assunte e non è questa la sede per approfondire certe definizioni, che qui diamo nel senso più comune delle stesse. Basti, invece, osservare come da questa definizione ne discende che la vita di una impresa è un equilibrio permanente di interessi spesso contrastanti. Ad esempio, la remunerazione dei fattori della produzione (ossia i salari pagati ed i profitti realizzati) è in contrasto con la soddisfazione del cliente, posto che più elevata è la remunerazione, più alto è il costo del bene offerto e, quindi, minore può essere la soddisfazione del cliente. Analogamente, la remunerazione del lavoro è spesso in contrasto con quella del capitale (e viceversa), secondo la più antica logica della contrapposizione.
Questo contrasto di interessi - che nulla ha a che vedere con il conflitto di interessi di cui tanto si parla (ma poco si fa) nel nostro paese - si pone tuttavia all'interno di specifiche regole dettate dalla società e si svolge in presenza di diversi altri competitori (il mercato) che tendono a perseguire lo stesso obiettivo e, quindi, limitano la possibilità di un singolo soggetto di far pendere al proprio vantaggio il conflitto di interessi. In altre parole avviene, nel mondo delle imprese ed in un'economia di mercato, quello che si è soliti vedere nella vita corrente di ciascuno di noi, spesso spinto a perseguire interessi contrastanti ed alla perenne ricerca di un equilibrio ottimale. L'esperienza ci insegna che l'ottimizzazione del risultato, ossia il massimo di soddisfazione per ogni soggetto, lo si produce in un sistema libero ove i contrasti di interesse si manifestano all'interno di regole condivise. Si tratta di un sistema di pesi e contrappesi ove la ricerca del proprio interesse è bilanciata dall'azione degli altri interessi. L'etica dell'impresa è il perseguimento degli interessi legittimi all'interno di regole condivise. In questo senso, una impresa è un luogo ove si può manifestare un processo etico, ossia rispettoso delle regole e teso a massimizzare i risultati.
Analogamente un mercato - anch'esso con numerosi interessi in contrapposizione e regole condivise - ha un suo valore etico perché il rispetto delle regole, pur nel perseguimento dei propri interessi, consente di rendere massimo l'utile e il benessere per tutti (lavoro, capitale, consumatori, società).
Ovviamente le cose, nella pratica, non sono così semplici, posto che esista un problema di "chi" fa le regole e di "come" esse vengono applicate e rispettate.
Per discutere sul "chi" fa le regole, occorre spostare l'analisi dal campo dell'etica a quello della democrazia, ossia al campo di come si forma la volontà pubblica in una società democratica. Sul "come" sono applicate e soprattutto rispettate le regole, l'analisi ritorna all'etica degli individui. E qui tornano i casi di abuso che abbiamo conosciuto nel recente passato. Essi mostrano che un mercato libero funziona e produce benessere se il rispetto delle regole condivise è sostanziale e non solo formale. Una impresa che non applica comportamenti etici, ossia corrispondenti alla morale che spinge ad un rispetto sostanziale delle regole, produce danni sia alla collettività, sia alla singola impresa. Il valore etico dell'economia di mercato sta, essenzialmente, nella promozione di un vero stato di diritto ove tutti, come pure lo Stato, sono sottomessi alla legge. L'esistenza, come nei casi recentemente verificatisi negli USA, di una punizione di mercato (perdita di valore) oltre che di provvedimenti giudiziari nei confronti di chi si è reso responsabile di frode e truffa nei riguardi degli azionisti e degli stake-holders, testimonia del valore che ricopre in una economia di mercato un comportamento coerente con le regole vigenti. In questo senso, si può dire che i casi di corruzione e di comportamenti illegali avvenuti negli USA nel mondo delle imprese rappresentano casi specifici che hanno indotto a stringere le regole del mercato, ma non contraddicono, anzi confermano l'esistenza di valori etici nelle imprese e nel mercato.

Innocenzo Cipolletta

MERCATO E DOTTRINA CRISTIANA
L'interpretazione dei nessi tra etica ed economia sembra costituire il percorso più originale per la comprensione, la critica e la proposizione di modelli socioeconomici in grado di rappresentare la complessità dell'agire umano, senza cedere alla logica barricadiera di certo ambientalismo e terzomondismo. Tale premessa implica il rifiuto di qualsiasi riduzione della dottrina sociale della Chiesa ad un elenco di norme e principi, mentre rappresenta un termine di riferimento per l'elaborazione di un'economia per l'uomo che sappia cogliere ed interpretare il senso più intimo dello spirito imprenditoriale. Allo stato attuale rileviamo che tali relazioni interdisciplinari sembrano suscitare un inedito interesse sia tra coloro che tradizionalmente si sono sempre occupati di etica, sacrificando volutamente lo studio della creazione e diffusione della prosperità, sia tra coloro i quali hanno sempre ritenuto non di loro competenza il come si produce la ricchezza.
Concordiamo con l'opinione di chi sostiene che sebbene con la globalizzazione l'economia planetaria stia divenendo sempre più libera "economia imprenditoriale", tutto ciò non porterà a risultati positivi finché la cultura umanistica - soprattutto quella di ispirazione cristiana - non darà una mano. A tal proposito, intendiamo offrire una nozione d'imprenditorialità che ci permetta di inquadrare l'agire economico nel più generale dinamismo dell'agire umano, evitando di oscillare tra un moralismo ottuso ed un razionalismo dogmatico. Alla luce dei più recenti documenti sociali della Chiesa, l'imprenditorialità ci appare come la virtù che rivela la soggettività creativa della persona, che le permette di porre in essere nel tempo presente un'organizzazione del lavoro produttivo, in considerazione delle condizioni incerte di un futuro ignoto; ovvero l'attitudine a gestire (oggi) i flussi produttivi presenti sul territorio, facendoli interagire con il principale fattore di produzione: il capitale umano, per la realizzazione di beni e servizi da destinare al mercato (domani). Nel rispetto del principio di sussidiarietà, spetta alla complessa rete della società civile - dunque necessariamente anche all'impresa - il ruolo di scopritore ed educatore del più affascinante, produttivo e raffinato tra i fattori di produzione, il capitale umano, un complesso di virtù che Giovanni Paolo II nella Centesimus annus ha chiamato capacità d'imprenditorialità, una sorta di fattore Don Chisciotte che presenta qualche similitudine con la nozione di "prontezza" cara all'economista Israel Kirzner. Potremmo dire, parafrasando un'immagine suggestiva offertaci dallo stesso Kirzner, che la capacità d'imprenditorialità ci consente di vedere in mezzo all'oceano, sulla linea dell'orizzonte, il profilo tracciato dalle terre emerse, lì dove altri, per secoli, avevano visto sempre e soltanto le nuvole.
Alla base di tale riflessione troviamo la consapevolezza che l'altro, piuttosto che un concorrente in lotta per la conquista dei mezzi scarsi, è la chiave attraverso la quale possiamo dischiudere lo scrigno prezioso e segreto che è in noi e scoprire l'immenso tesoro di cui Dio ci ha fatto dono. II mercato, piuttosto che essere un "luogo" uno "spazio sociologico" da occupare, dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, rappresenta un processo relazionale, è l'insieme delle relazioni mediante le quali ciascuno cerca di soddisfare i propri bisogni ricorrendo ai bisogni dell'altro: che ciò avvenga mediante il baratto, la pecora, le conchiglie o la moneta, la logica che ne governa i processi non muta di una virgola. In un mondo complesso, segnato inevitabilmente dall'ignoranza, dalla fallibilità e dal pluralismo delle intenzioni, la libera economia di mercato, regolata da norme certe che tutelino i diritti di proprietà e la trasparenza dei contratti, è, nello stesso tempo, lo strumento più umile - giacché non contano il censo o la casta - e più efficace - poiché fa leva sul limite umano e, di conseguenza, sul bisogno reciproco - che ci consente di procedere per tentativi ed errori nella direzione di un prudente e realistico processo di sviluppo stabile, diffuso e duraturo. Il presupposto della libertà, come afferma Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, ha il merito di evidenziare l'elemento essenzialmente positivo della moderna economia di mercato e che sta alla base di ciò che chiamerei personalismo metodologico. La riflessione sin qui svolta si propone di offrire gli elementi per la discussione intorno ad una dottrina economica che faccia leva sulla libera economia d'impresa la cui eticità emerga dalla stessa razionalità, un'alternativa alle classiche teorie che tentano di spiegare la miseria del Terzo Mondo a partire da un'idea di sviluppo come un gioco a somma zero, in cui la ricchezza è un dato da distribuire (l'economia di Robin Hood), piuttosto che un processo dinamico di genuina creazione di valore attraverso l'opera imprenditoriale. L'auspicio di chi scrive è che sempre più gli economisti cattolici, almeno quelli disposti a non farsi distrarre da certe logiche barricadiere, si inseriscano in questo dibattito e che colgano l'occasione per ricercare in modo creativo le vie da intraprendere per eleborare e "sostenere" modelli di sviluppo duraturo (piuttosto che "sostenibile"), in base ai quali, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, storicizzare - per usare le parole del Santo Padre che si interroga "sul modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile" - un'autentica "economia d'impresa" o "economia di mercato" o, semplicemente, "economia libera" (Centesimus annus, n. 42). Ossia, uno sviluppo economico intensivo, diffuso e stabile; caratterizzato dall'opera creativa degli imprenditori per l'accumulazione decentrata e partecipata del capitale, dal ruolo delle organizzazioni sindacali impegnate affinché gli imprenditori perseguano il reinvestemento produttivo dei loro utili e dalla lotta ai monopoli (tanto pubblici quanto privati), favorendo la crescita della concorrenza all'interno di un chiaro quadro normativo.
Flavio Felice

09/25/2002

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