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Tre secoli di ritratti

Al castello di Masnago la prima, in ordine cronologico, delle due mostre dedicate alla ritrattistica: iniziative realizzate in sedi diverse ma profondamente legate dalla continuità del tema culturale. Un unico evento artistico di grande valore che ha visto il realizzarsi di una proficua collaborazione tra il Fai e la Città.

La mostra "Il ritratto in Lombardia da Moroni a Ceruti (1550-1750)" porterà a Varese fino al 14 luglio i visitatori in cerca di grandi eventi. Inaugurata presso il castello di Masnago in contemporanea con la rassegna di Villa Panza "Mecenati e pittori da Boccioni a Warhol: riflessioni sul ritratto del '900", costituisce infatti con quest'ultima - che ne rappresenta il completamento e la prosecuzione cronologica, perché dedicata alla ritrattistica del Novecento - un evento di primo piano per Varese, ponendola al fianco di altre città della provincia lombarda impegnate in un circuito di importanti iniziative culturali. Le due mostre suggellano anche un'intesa tra la città di Varese e il Fai che si spera destinata a tradursi in una continua, proficua collaborazione, sottolineata fin d'ora anche dalla decisione di staccare per le due mostre un unico biglietto cumulativo (10 euro), comprensivo di servizio domenicale navetta collegante i due musei di Masnago e Biumo Superiore. Per cominciare dalla prima mostra, va dato merito innanzitutto ai curatori, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, e alla direzione della conservatrice Anna Bernardini, del succoso contenuto dell'allestimento: che, sulla traccia già indicata da Roberto Longhi nel '53 nella rassegna di Palazzo Reale dedicata a "I pittori della realtà in Lombardia", offre un ulteriore e più ampio excursus nell'arte di ambito lombardo, quella legata alla ritrattistica, dalla metà del 1500 fino al 1750. E basterebbe accennare ad opere ammalianti e note, come alcuni capolavori di Sofonisba Anguissola e di Giovan Battista Moroni, o al riscoperto ritratto di Gregorio XIV- al secolo Nicolò Sfrondrati, nato nell'avito castello visconteo di Somma Lombardo - superbo lavoro del cremonese Pietro Martire Neri (1601-1661) restaurato per l'occasione, o all'inusuale ritratto di bambino con cesta del bergamasco Baschenis, o a quello del "Monaco olivetano della famiglia Pueroni", opera di Luigi Miratori, detto Il Genovesino (1605-1656) già attribuita allo spagnolo Zurbarán e prestata per l'occasione dalla Hispanic Society of America. Ma ci sono anche i ritratti che resero celebre e ricercata l'opera di Fra' Galgario, famosi per il "naturalissimo atteggiamento" e la "dolce guardatura" dei personaggi, oltre che per l'uso delle rosse lacche veneziane, ci sono le importanti prove ritrattistiche del fiammingo Jacob Ferdinand Voet e del polacco Salamon Adler, significativo esempio delle vicende pittoriche in terra lombarda di artisti provenienti dal Nord Europa, che la mostra sottolinea e conferma. Perché uno degli intenti, come hanno notato i curatori, era anche quello di documentare, attraverso nuove ricerche, una produzione dimenticata: e non solo quella dei nordici Voet e Adler, ma anche quella dei nostri Ambrogio Figino, Daniele Crespi e Carlo Francesco Nuvolone, artisti sì di primo piano, ma noti fin qui principalmente per la loro arte sacra e non altrettanto come ritrattisti raffinati, quali seppero essere e come la rassegna varesina dimostra. L'immagine offerta dalla mostra è dunque quella di un ambito artistico non certo secondario, di autori talmente bravi da rischiare, come accadde al Moroni, l'attribuzione di proprie opere a Tiziano, o da esser paragonati, è il caso di Carlo Francesco Nuvolone, a Van Dyck e Murillo. Autori ricercati per la naturalezza con cui sapevano parimenti ritrarre poveri e signori.
Ma aldilà dell'indubbio contenuto artistico della rassegna, con 130 importanti opere, tra pitture, disegni e sculture provenienti da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, con una raffinata sezione dedicata a medaglie e incisioni e uno sguardo anche alla pubblicistica coeva, il coinvolgente interesse della mostra è dato già dal tema: la ritrattistica è genere d'arte avvincente forse più di ogni altro, carico di significati e implicazioni. Perché è in primo luogo specchio stimolante - sovente impietoso - dell'anima dell'uomo, e, in quanto interpretazione psicologica che l'autore fa del personaggio ritratto, rivelazione di un mestiere che consegna anche l'anima dell'artista assieme a quella del ritrattato. Ma è soprattutto fedelissima "fotografia" di epoche e momenti storici diversi: e a Masnago sono tre i secoli d'arte riproposti, lungo un percorso storico e culturale descritto con l'intelligenza e la sensibilità di eccellenti fotografi-artisti. Le tappe principali prendono avvio dall'arte naturalistica e palpitante della Anguissola (1532-1625) e di Moroni (1520-1578), un'arte che è spia della vita di provincia, in quel di Bergamo e Cremona, e si contrappone significativamente all'arte di corte, quella ufficiale e importante della Milano all'epoca di Carlo V e Filippo II, descritta da Giovanni Ambrogio Figino (1553-1608), da Bernardino Campi e dagli scultori Leone e Pompeo Leoni. Austera e pregna di severi accenti è poi la ritrattistica d'epoca borromaica, rappresentata qui dall'opera di Fede Galizia, quella "madonna Fede" raffinata ritrattista, di cui non si ebbero più notizie a partire dal 1630, anno della famosa pestilenza, da Giulio Cesare Procaccini (1574-1625) e soprattutto dai numerosi ritratti di Daniele Crespi (1597/1600-1630), pittore preferito dai Borromeo. Mentre l'influsso caravaggesco di Tanzio da Varallo e del francese Simon Vouet prelude al barocco di Carlo Francesco Nuvolone (1609-1661), Francesco Cairo (1607-1665), Carlo Ceresa (1609-1679) e Evaristo Baschenis (1617-1677).
A chiudere il cerchio, alla vigilia della età dei lumi, sono le eccellenti opere di Vittore Ghislandi, detto Fra' Galgario (1655-1743) e di Giacomo Ceruti (1698-1767), che i contemporanei chiamavano "il pitocchetto" perché ritraeva i poveri, "i pitocchi", con lo stesso zelo con cui ritraeva i ricchi prelati di provincia o gli aristocratici della nobiltà milanese: come i Calderara e gli Aliprandi, i Cicogna e i Lampugnani Visconti, i Medici di Marignano e i Litta. Una sezione a parte è significativamente dedicata all'Ospedale Maggiore di Milano, fucina dei ritrattisti lombardi tra Sei e Settecento, tra i quali erano Filippo Abbiati, Andrea Porta e Antonio Lucini. Toccò più volte a loro immortalare post mortem, su richiesta delle famiglie desiderose di mantenere memoria della generosità dei propri cari, i ricchi benefattori della Ca' Granda.

Il ritratto in Lombardia
da Moroni a Ceruti (1550-1750)
Castello di Masnago - Via Cola di Rienzo - Varese
21 aprile - 14 luglio 2002
da martedì a sabato: 10.30-18.30
domenica: 10.30-12.30 - 14.30-18.30
per informazioni, laboratori didattici e visite guidate - tel. 0332 820409

Un percorso nel percorso seguendo la storia della moda

La rassegna del castello di Masnago è storia di grandi eventi e grandi personaggi (papi e cardinali, re e principi, potenti dell'ultima ora), ma è anche storia di una quotidianità varia che traspare da interni domestici, da oggetti e arredi e dall'abbigliamento: ad uso di laici e religiosi, di cavalieri e dame, di padroni e serventi, di adulti e bambini, di illustri sconosciuti, tutti ugualmente protagonisti nei loro panni d'epoca.
A quest'ultimo proposito, la mostra, grazie alle competenze di Grazietta Buttazzi, offre un percorso analitico ulteriore, di vera e propria storia della moda, che si snoda inseguendo e illustrando quella scia ora sofisticata, ora improntata a evoluzioni e stranezze imposte al costume dalle usanze ma anche dai gusti e dalle preferenze dei soggetti rappresentati, spesso gli stessi committenti delle opere.
L'attenzione corre dal sontuoso, costosissimo abbigliamento della letterata Isotta Brembati dipinta da Moroni a metà del 1500 - l'abito in broccato verde e oro, il ventaglio con piume di struzzo dal manico montato in oro, lo zibellino poggiato sulle spalle - alla sontuosa giubba del cavalier Cesare Cavalcabò: sulla quale spicca l'ampio collare a lattuga, da portare, secondo una moda venuta dalla Francia all'inizio del Seicento, senza inamidatura. Non meno imponente è la lunga casacca foderata in pelliccia di martora dell'abito da gentiluomo ritratto da Carlo Cesare Ceresa, sormontata da un largo e candido bavero, segno di integrità morale e simbolo di dignità borghese. Alle frivolezze degli abiti femminili ornati da velluti, pizzi e ricami, e alle acconciature per capelli ricche di perle, di oro e di argento (ne è significativo esempio il ritratto delle tre sorelle Anguissola), si contrappongono lo zucchetto nero e la leggera mussola della veste dell'abate Angelo (Lechi), fissato per sempre, in un ritratto esemplare, dal pennello di Giacomo Ceruti.

05/09/2002

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