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Il sogno cinese

Nessun paese al mondo ha catturato così profondamente e così a lungo l'attenzione di mercanti, avventurieri, viaggiatori e investitori come la Cina, con la sua promessa di infiniti mercati da conquistare. India e Indonesia hanno ricevuto un'assai minore considerazione. Il Giappone cominciò a suscitare interesse solo all'inizio del '900, quando la sconfitta navale inflitta alla Russia nel 1905 portò all'attenzione degli occidentali il rapido processo di crescita e modernizzazione che il paese stava vivendo. Il business internazionale corteggiò brevemente il Brasile negli anni '70 per poi riscoprire la verità di una perfida battuta del generale Charles de Gaulle: "Il Brasile è un paese con un grande potenziale e sempre lo sarà". La Cina non ha mai avuto di questi problemi, venendo presentata e promossa come un investimento sicuro per secoli e secoli, nonostante, in fondo, non lo sia stata mai.
A questo fenomeno un autore, Joe Studwell, ha dato un nome che è anche il titolo del suo famoso libro: "The China Dream", il sogno della Cina. Studwell racconta la storia della straordinaria fascinazione per il "celeste impero" a partire da Marco Polo. Certo, la "via della seta" era già nata prima, al tempo dell'impero Han, coevo della Roma dai primi re ad Adriano, che, soprattutto attraverso indiani e persiani, giunse in contatto con mercanti cinesi. Per capire come stavano le cose, occorre ricordare che, durante la dinastia Tang (618-907 d.c.), quando l'Europa era sprofondata nell'arretratezza più cupa, la Cina aveva più di due dozzine di città con oltre mezzo milione di abitanti, con due milioni nella capitale, Xi'an, dove vivevano anche 25mila stranieri. "Zhong guo", il "regno di mezzo" attorno al quale tutti gli altri girano, era già allora una civiltà al suo picco, dalla quale, tra l'11° e il 14° secolo, gli europei ottennero ciò che poi servì loro per gettare le premesse, con i viaggi e le conquiste, di un successo che dura ancora oggi: la nave multialbero con il timone fisso; la bussola; forni per la completa lavorazione del ferro; tecniche idrauliche avanzate; polvere da sparo; e perfino il meccanismo fondamentale dell'orologio.
Polo veniva da una delle più grosse città europee di allora (Venezia aveva 160mila abitanti alla fine del '200) e passò parecchio tempo a Hangzhou, capitale meridionale della dinastia Song, che allora aveva 6 milioni di abitanti. Si può capire che i suoi occhi non credevano a quello che vedevano. Due cento anni dopo, un altro grande viaggiatore, Cristoforo Colombo, annotò a margine della sua personale copia del "Milione" la frase "merçacciones innumeras", enormi commerci, e partì per agguantarli. Solo che, come è noto, "buscò el ponente para l'oriente". Ma la corsa era cominciata. Furono i portoghesi ad arrivare primi, dopo che Vasco da Gama, alla fine del '400, aveva aperto la rotta attorno al Capo di Buona Speranza. Ma ai portoghesi interessavano solo le spezie. Poi arrivarono spagnoli e olandesi. Vennero stabiliti i primi avanposti, come Macao e Malacca. I modesti commerci riguardavano la seta, un po' di porcellana, radici di rabarbaro e le prime piccole partite di thè, venduto allora come tonico. Tutto questo con notevoli difficoltà. Ogni tanto, la natura profondamente introversa, xenofoba, dei cinesi prendeva il sopravvento. Perfino durante la cosmopolita dinastia Tang vi fu all'improvviso un massacro di mercanti stranieri. Un imperatore della dinastia Ming, molto più tardi, lasciò marcire la potentissima flotta cinese nel porto di Nanchino, perchè, diceva, la Cina è grande e deve occuparsi della sua unità interna. Vennero bloccati i traffici portoghesi a Guangzhou. Vi furono tentativi di riprendere Malacca.
Poi arrivarono gli inglesi, che avviarono in grande il commercio del thè e della seta. Solo che, in cambio, i cinesi non compravano quasi niente. Nel 1784 l'"Empress of China" fu la prima nave americana ad entrare a Guangzhou. Mentre gli europei stavano perdendo la pazienza con la Cina, inglesi e americani si tuffarono nel "sogno della Cina". Nel 1793 arrivò alla corte dell'imperatore Qian Long Lord Macartney, ambasciatore di Giorgio III e capo della più numerosa delegazione mai vista a Pechino: 700 persone, che presentarono meraviglie tecnologiche e merceologiche. Dopo aver estenuato il povero Maccartney, l'imperatore gli disse: "La Cina non ha il minimo bisogno dei vostri manufatti".
Si può capire che cominciarono a diffondersi anche sentimanti anti-cinesi. Daniel Defoe sosteneva che i cinesi "disprezzano tutto il mondo tranne se stessi". Montesquieu si diceva convinto che i missionari erano stati "ingannati da un'apparenza d'ordine, non dalla sua realtà". Sta di fatto che, 150 anni fa, sulla cresta di una delle più grandi ondate di globalizzazione della storia, il commercio anglo-americano con la Cina raggiunse il suo picco. Naturalmente le bilance commerciali occidentali continuavano a piangere e, per consolarle, gli anglo-americani imponevano ai cinesi l'acquisto di oppio, abitudine che provocò due guerre. Il sogno poi continuò così, in una specie di dormiveglia, fino alla depressione degli anni '30 e fino al grande buio, seguito alla vittoria di Mao Zedong. Per capire a che punto siamo adesso, basta una cifra. Negli ultimi 10 anni dello scorso secolo, sono arrivati in Cina 300 milioni di dollari di capitali stranieri, i cosiddetti Foreign Direct Investments, che hanno polverizzato i record del secolo vittoriano. Il sogno è diventato di nuovo un'ossessione, un'ossessione che questa volta, chissà, potrebbe anche rivelarsi finalmente giusta. Ma non bisogna mai dimenticarsi che la Cina è un osso duro.
Gli italiani, dopo alcune incursioni negli anni '60 (Montedison, Iveco), si sono sostanzialmente disinteressati della Cina fino a poco tempo fa. Non è un caso che l'Italia, adesso, sia il quinto paese europeo nell'interscambio con la Cina e solo il sedicesimo nel mondo. Ci sono parecchi prodotti, soprattutto meccanici, dalle auto alle macchine utensili, oltre al made in Italy di qualità, che potrebbero interessare i cinesi. Il problema è che la presenza degli italiani non si è ancora caratterizzata per sufficiente continuità e costanza, terreno, questo, che i tedeschi hanno invece trasformato nel loro punto di forza principale. L'altro difetto degli italiani agli occhi dei cinesi è quello di portare molte idee e pochi soldi. Inoltre, l'Italia, a differenza della Germania, non ha praticamente più grandi "campioni" industriali, capaci per dimensione, peso e disponibilità finanziarie, di impegnarsi in grandi progetti. La Cina non è una piccola cosa: basti pensare che in questo momento, sul suo territorio, è aperto un quarto di tutti i cantieri edili attivi nel mondo. Se gli italiani vogliono inseguire il sogno della Cina, devono darsi da fare in fretta.

02/25/2005

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