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Lavorare in remoto

Di fronte all’esigenza di una sempre maggiore flessibilità di orari e in concomitanza con blocchi del traffico e scioperi dei mezzi si ripropone un interrogativo che da decenni accompagna e contrappone sociologici e informatici: telelavorare è possibile?

Un computer, una connessione internet, uno spazio "dedicato" all’ufficio in casa: a chi non sorride l’idea di poter comodamente lavorare dalla propria abitazione? Stop agli spostamenti, minor traffico e inquinamento, più scarse possibilità di "entrare in conflitto" con i colleghi della scrivania vicina ed una gestione del tempo più flessibile.
Detto così il telelavoro potrebbe apparire la panacea di alcuni mali della modernità, come l’inquinamento il traffico e lo stress. E la soluzione, oltretutto, si ottiene proprio grazie alla modernità fatta di microprocessori, connessioni veloci e banda larga. Ma per quante persone il telelavoro o la sua evoluzione - che è definita e.Work - sono o potrebbero essere realtà?
I dati disponibili circa la misurazione del fenomeno non sono recentissimi, ma aiutano a capirne la dimensione e la rapida evoluzione. Infatti, nonostante i numerosi siti internet che seguono il fenomeno accreditano la teoria che il fenomeno sia in continua crescita, i dati ufficiali rimangono quelli del 1999 raccolti dall’European telework developement con il supporto della Commissione Europea. I telelavoratori "censiti" in tutta l’Ue erano 9milioni (pari al 6,6% della forza lavoro) contro i 15milioni e 700mila degli Usa (pari al 12,9 della forza lavoro) e gli oltre 2milioni del Giappone (7,9% della forza lavoro).
In Italia coloro che a vario titolo lavoravano "fuori dalla struttura tradizionale" ammontavano sei anni fa a 720mila persone (3,59% della forza lavoro) con un incremento molto consistente rispetto alla rilevazione precedente che, nel 1994, aveva registrato solo 97mila telelavoratori italiani (lo 0,5% della forza lavoro). Ma anche con questo balzo in avanti il nostro Paese restava penultimo nella graduatoria dell’Unione europea capeggiata dalla Finlandia dove un sesto circa della forza lavoro utilizzava già nel ‘99 le tecnologie disponibili per lavorare fuori dagli uffici.
Ed era stato proprio il desiderio di ridurre gli spostamenti ad indurre Jack Nilles, consulente dal dipartimento dei trasporti americano, a parlare per la prima volta di telelavoro o meglio di telecommuniting ovvero di telependolarismo. Era il 1973, anno nero della crisi petrolifera, e Nilles pensò di studiare gli effetti che poteva avere lo spostare i dati e il lavoro anziché le persone, ad esempio in città problematiche per traffico e inquinamento come Los Angeles. Ma gli entusiasmi ebbero vita breve e l’interesse per il telelavoro esplose letteralmente solo alla fine degli anni ‘80 motivato dalla nascita ed espansione di internet, la rete globale che veramente poteva diventare l’autostrada informatica per far muovere dati e lavoro anziché persone.
A spingere il piede sul tasto dell’acceleratore ci pensò prima l’amministrazione Usa che, con un apposito provvedimento (Clean air act del 1990) incentivava le aziende a ridurre il numero dei dipendenti in movimento: erano messi a disposizione bonus per trasformare posti fissi in posti di lavoro a distanza. Dall’altra parte dell’oceano, nel vecchio continente la Commissione europea ha innescato una serie di finanziamenti per progetti di telelavoro del quale nel rapporto Bangemann del 1994 si parla con toni piuttosto enfatici fissando l’obiettivo di 20milioni di posti a distanza da realizzare entro l’inizio del nuovo secolo. Tale rapporto, voluto dal Consiglio d’Europa, e studiato da un gruppo di eminenti personalità presieduto da Martin Bangermann, l’allora Commissario europeo per le telecomunicazioni, ha presentato procedure d’azione e raccomandazioni circa i mezzi necessari per l’evoluzione della società dell’informazione globale.
Ma quali sono concretamente i lavori "telelavorabili"? Per l’Italia l’Inps ha definito "potenzialmente" telelavorabili tutte le attività che non richiedono produzione di beni materiali. In questo senso il mondo delle professioni, con gli sviluppi delle tecnologie, appare il più adatto ad essere spostato fuori dal tradizionale luogo di lavoro, ma ad esso si affianca anche tutto ciò che riguarda l’elaborazione di informazioni, l’insegnamento, la progettazione, i servizi di traduzione: tutti ambiti nei quali si sono fatte anche delle esperienze positive. L’alto grado di lavoro intellettuale, la sussistenza di compiti gestibili individualmente, risultati misurabili e l’uso di apparecchiature poco voluminose sono considerati i punti forti per giudicare se un lavoro è telelavorabile o meno. E comunque la scelta del telelavoro non appare irreversibile e si può pensare di utilizzare formule miste, svolgendo cioè l’attività in parte presso l’azienda, in parte a distanza: il tutto però inquadrato in un quadro normativo e contrattualistico che non sempre aiuta.
Nel settore pubblico il telelavoro è stato introdotto dalla Bassanini ter nel 1998 (dal nome della dell’allora Ministro per la Funzione Pubblica e gli Affari Regionali, Franco Bassanini) seguita da un decreto applicativo del 1999 e da un accordo quadro tra Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) e organizzazioni sindacali il tutto nell’ottica di ammodernamento, semplificazione e trasparenza.
Esperienze pratiche in questo ambito sono poi state fatte dal Comune di Roma, dall’Università di Pisa, dalla Provincia di Perugia, dal Comune di Napoli e dall’Inail.
Nel settore privato l’interesse delle aziende per il telelavoro dovrebbe scaturire dalla maggiore flessibilità anche temporale di utilizzo del lavoratore, da una maggiore motivazione dei dipendenti, dalla riduzione delle dimensioni e dei costi aziendali.
In questo caso accordi aziendali sono stati conclusi dopo il 1994 ad esempio da Italtel, Telecom Italia, Seat, Saritel, Tim e Omnitel e Caridata. E di telelavoro si parla anche all’interno del contratto nazionale delle aziende delle telecomunicazioni in quello del commercio (1997). Ma un tratto comune a tutti questi accordi è il carattere sperimentale e la loro breve durata (massimo due anni). Vantaggi a parte il telelavoro non sembra decollare nel nostro Paese e questo a causa anche di alcuni ostacoli di carattere tecnico come l’arretratezza tecnologica, ma anche i costi tariffari elevati e la poca formazione e informazione in materia.
A ciò si deve anche aggiungere la grande difficoltà a stimare effettivamente il fenomeno che cambia rapidamente i suoi connotati: così, ad esempio, si nota che nei documento più recenti dell’Unione Europea non si parla più di telelavoro, ma di eWork. Un neologismo che sta ad indicare un concetto ancora più ampio e moderno ossia "qualsiasi attività lavorativa svolta da un luogo remoto attraverso l’utilizzo delle tecnologie informatiche e telematiche".


Dove l’Adsl non arriva
Le tecnologie in banda larga sono diventate oramai una naturale dotazione delle abitazioni di molti di noi. Di molti, appunto, ma non di tutti. Se si considerano le sole applicazioni domestiche, la limitazione può essere certamente fastidiosa e frustrante, ma quando si parla di telelavoro, di Voip, di tele-sanità, solo per fare alcuni esempi, la questione assume una connotazione ben diversa. Risulta cioè evidente come il "digital divide" rappresenti ancora e soprattutto oggi, nel 2006, un problema autentico, anche nel varesotto, in una delle aree più industrializzate d’europa. Occorre maturare la convinzione che si tratta di una dotazione infrastrutturale, che, alla pari di strade e ferrovie, può contribuire in maniera determinante allo sviluppo sociale ed economico di un territorio. Spesso le aree non raggiunte dalla connettività permanente a banda larga sono già geograficamente svantaggiate, quindi un piano d’intervento strategico per l’estensione della copertura diventa ogni giorno più necessario ed
urgente, proprio per non condannare questi territori, dove esistono (resistono?) imprese ed abitazioni, ad una ulteriore marginalizzazione.
Luca Massi

03/31/2006

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