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Credere nello sviluppo

Credere nello sviluppo è il punto di partenza per guardare al futuro della nostra economia. Credere, progettare, ma soprattutto agire: i fattori per il rilancio del made in Italy, suggeriti nella relazione del Presidente Alberto Ribolla all'assemblea generale 2004 dell'Unione Industriali.

Prima l'allarme per la progressiva perdita di competitività del made in Italy. Poi la persistenza di una congiuntura negativa che pare proprio non volersene andare. Infine, come a confermare le serie difficoltà del nostro sistema economico, l'invasione di prodotti cinesi. Tra la fine dello scorso anno e l'inizio di quello presente, una serie di contingenze economiche sia di carattere strutturale, sia congiunturale, hanno preparato una miscela esplosiva che ha fatto gridare più d'uno al declino dell'Italia. Una prospettiva che ha subito suscitato reazioni di rigetto, a partire dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che in ripetute occasioni ha sostenuto di aver maturato la convinzione, nei suoi viaggi nella provincia italiana, che "il modello italiano di sviluppo è ancora valido. Il sistema industriale ha solide basi e una sempre crescente diffusione sul territorio, da Nord a Sud" e che abbiamo dunque "tutte le possibilità di contrastare con successo la deindustrializzazione".
Ma cosa ci spaventa tanto? Il mondo sta cambiando. La quota del prodotto lordo mondiale dei cosiddetti Paesi emergenti - Cina, India e Tigri asiatiche - è quasi raddoppiata dal 1995 al 2003 passando dal 12,8% al 24%. La quota dei paesi ricchi, tra cui figura l'Italia, si è invece ridotta dal 60% a poco più del 55%. Apparentemente, potrebbe sembrare che i Paesi di più antica industrializzazione abbiano perso terreno rispetto a quelli in via di sviluppo. Ma non è questa la sola chiave di lettura. Nella realtà, con la crescita del prodotto lordo mondiale, si è allargata la torta e ciò ha dato luogo ad una diversa ripartizione della ricchezza senza tuttavia aver tolto a nessuno. Anzi, facendo crescere tutti.
Del resto, questa è una dinamica inevitabile. Come fa notare Mario Deaglio nel suo saggio introduttivo del libro "La globalizzazione dimezzata", la riduzione del peso dell'economia avanzata è in parte fisiologica in quanto la velocità di crescita di Paesi economicamente più giovani, oltre che più poveri e con una demografia più dinamica, risulta necessariamente più elevata. E sarebbe illusorio, oltre che ingiusto, pensare di tenere fuori dallo sviluppo quattro quinti dell'umanità.
E' tuttavia un dato di fatto che il nostro Paese cresca poco. Nel 2003 il Pil è aumentato solo dello 0,3%. Nel medesimo anno la Spagna è cresciuta del 2,4%, il Regno Unito del 2,3%, il Giappone del 2,7%, gli Usa del 3,1%. Per non parlare ovviamente della Cina, cresciuta di più dell'8%. Né vale come consolazione il fatto che anche in Francia la crescita sia stata appena dello 0,4% ed in Germania si sia registrata una contrazione del PIL dello 0,1%.
Insomma, qualcosa che non va ci deve pur essere. Tuttavia - l'affermazione è di Luca Cordero di Montezemolo nel suo discorso di insediamento alla presidenza di Confindustria - "non dobbiamo rassegnarci ad una bassa crescita perché ormai siamo troppo ricchi. Il Paese ha ancora sacche di povertà ed aree non sviluppate. Comunque, non esiste in economia la logica dello stare fermi. O si cresce o si regredisce. Sta a noi decidere. Non esiste alcun male oscuro o alcuna maledizione che ci impedisca di crescere".
Una tesi condivisa anche dal presidente dell'Unione Industriali della Provincia di Varese, Alberto Ribolla, che ha infatti dedicato al tema: "Credere nello sviluppo: strategie e prospettive" l'Assemblea annuale che si è tenuta il 1° giugno scorso al centro congressi Ville Ponti. Un evento in cui si è voluto ribaltare la prospettiva rinunciataria di un declino inevitabile e si è riaffermata con forza la volontà di credere nello sviluppo e di voler operare in quella direzione, anche a livello territoriale.
Chiave di volta della relazione del presidente Ribolla è che il cambiamento non va temuto, ma assecondato e diretto e che insieme si debba maturare una visione alta del nostro futuro, verso la quale incanalare le forze e l'operato di tutti. Viene chiamato in causa quindi il ruolo della politica, "una Politica con la "P" maiuscola, capace di elaborare grandi progetti e di appoggiare sulle fondamenta della volontà il sogno di realizzare grandi traguardi. Una politica che non si chiuda nella ricerca di facili consensi e nella difesa degli interessi settoriali, ma che sappia armonizzare le tensioni nell'ottica di un vantaggio complessivo. Una politica che sappia prospettare grandi ideali con obiettivi credibili e condivisibili. Una politica capace di guardare al di là e al di sopra dei frequenti appuntamenti elettorali."
Ma se la politica traccia gli orizzonti, gli imprenditori non vogliono sottrarsi ad un ruolo che sanno di dover esercitare in prima persona. Un ruolo che li chiama a lavorare su più livelli, alla valorizzazione dei prodotti tradizionali, al potenziamento dell'effetto di trascinamento del made in Italy, ma anche al riposizionamento verso l'alto della curva produttiva, consapevoli che non basta più produrre in maniera eccellente, ma bisogna saper innovare in continuazione, saper individuare il nuovo ed entrare in segmenti di mercato dove esistono maggiori possibilità di sviluppo.
L'Italia è fortemente concentrata nei settori tessile, abbigliamento, cuoio, mobili, gioielli e simili, settori che complessivamente pesavano nel 2000 per il 16,3% della produzione manifatturiera italiana contro il 5,7% in Francia, il 4,7 in Germania, il 6,5% in Gran Bretagna e il 9,2% in Spagna. Concentrazione che, tra il 2000 e il 2005, è ulteriormente aumentata, al contrario dei nostri principali concorrenti. Questo rappresenta un rischio potenziale per l'economia italiana: occorre rendere più elastica la curva produttiva, aumentare il passo per intercettare la crescita là dove essa si manifesterà e ricordare che la sfida della competizione si vince con l'innovazione, ma anche con la competenza delle persone, con la reputazione dell'impresa, con la capacità di conquistare la fiducia dei clienti. Insomma, per il presidente Ribolla l'Italia conserva delle chance e ci sono tutti gli ingredienti per ritrovare spazi di manovra e per ridisegnare il modello di sviluppo. Sono quattro gli elementi su cui puntare. Primo, un rapporto nuovo e collaborativo tra sistema finanziario ed imprese. Secondo, la cura del giacimento di competenze umane, attraverso la formazione. Terzo, il potenziamento delle infrastrutture del territorio. Quarto, le riforme, quelle riforme invocate da tempo per passare da una logica di protezione, che impedisce di crescere, ad una logica di sostegno allo sviluppo attuata attraverso la liberazione di risorse. Componente trasversale dei quattro elementi indicati: la dimensione europea. Come sostiene Alberto Ribolla, le dimensioni sulle quali ragionare nell'affrontare i problemi dello sviluppo non possono essere né locali, né nazionali, ma europee. La competitività, il rispetto delle regole, la politica commerciale, la lotta alla contraffazione, l'opportunità di grandi programmi di investimenti in ricerca, una politica industriale giustamente aggressiva hanno le dimensioni dell'Europa. E' la nuova Europa a 25 - un aggregato di 450 milioni di persone - la dimensione ottimale per giocare un ruolo di primo piano e non da gregari nell'economia internazionale.

...E PER IL TERRITORIO
Dalla relazione del presidente Alberto Ribolla all'assemblea annuale dell'Unione Industriali 2004:

Rapporto finanza-impresa - …andrebbero create le condizioni per far coagulare le ingenti risorse finanziarie presenti in territori come questo, di lunga industrializzazione, attraverso strumenti mirati allo sviluppo delle imprese, alla loro indispensabile internazionalizzazione e al sostegno delle attività innovative.
Le competenze - …dobbiamo fare in modo che anche domani gli imprenditori scelgano di restare qui perché qui si fa bene industria, perché qui ci sono uomini e donne preparati e creativi, preparati ad affrontare il cambiamento, in grado di intercettare il nuovo modello di impresa che si sta facendo avanti. Un'impresa sempre meno "hard" e sempre più "soft".
Le infrastrutture - ...contro Malpensa hanno remato lobby straniere - quelle delle compagnie aeree, ma non solo - e lobby di casa nostra: certamente la lobby dei dipendenti Alitalia ed una forte lobby territoriale della Capitale.
…ogniqualvolta viene ipotizzata una nuova opera - sia essa una strada, un nuovo impianto di smaltimento di rifiuti, una centrale energetica - si amplia solo il partito del dissenso, il cui unico primato è quello di vincere le elezioni del "non- fatto". Partito, del quale sarebbe ora di cominciare a pesare l'effettiva rappresentatività.
…abbiamo provato, lo scorso anno, a lanciare l'idea di dotare la provincia di Varese di una centrale che consenta di ridurre la dipendenza energetica della sua economia e dei suoi cittadini. Lo abbiamo fatto sulla scorta di due convinzioni: la prima è che l'Italia deve assolutamente colmare il gap esistente tra energia prodotta ed energia consumata. La seconda convinzione è che il senso di responsabilità deve avere la meglio sulla cosiddetta "Sindrome Nimby - Non nel mio giardino".
Il dialogo sociale - …il dialogo è un patrimonio, un asset fondamentale dell'intero sistema produttivo, che può consentire a tutti di uscire vincenti.

06/10/2004

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