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"Come" siamo (dis)occupati

Un panorama sullo stato di occupazione/disoccupazione della provincia di Varese. Una realtà sicuramente positiva se confrontata con altre del nostro Paese, ma non priva di ombre. Da dissipare.


Disoccupazione sì. Disoccupazione no. Ma quanto siamo disoccupati in questa provincia?
L'uscita dei dati ufficiali sul mercato del lavoro apre ogni anno un mare di interrogativi. Troppo spesso ci si limita a chiedersi "quanto siamo disoccupati", anche se la domanda giusta sarebbe "come siamo disoccupati".
Frugando tra le statistiche si può trovare una prima, anche se parziale risposta.
Il quadro che emerge dalle ultime rilevazioni campionarie dell'Istat è tutto sommato confortante per il nostro territorio. L'economia, pur in una fase di congiuntura molto debole, ha mantenuto l'occupazione e ridotto il tasso di disoccupazione.
Nel 2003 la disoccupazione varesina è scesa al 3,4%, il tasso più basso rilevato nell'ultimo decennio. Con una riduzione circa 0,3 punti percentuali rispetto al 2002, la provincia di Varese si mantiene, quindi, leggermente al di sotto della media lombarda (3,6%) e si colloca al 24° posto sulle 103 province italiane. Una performance soddisfacente, ma non ancora assoluta, se messa a confronto con altri territori che registrano tassi incredibilmente bassi dell'1,3% a Lecco o dell'1,9% a Bergamo. Tassi ai limiti della piena occupazione. Tuttavia, anche Varese, pur non essendo, in termini di rilevazioni statistiche, nelle medesime condizioni registra tutte le frizioni ed i disagi di un'economia che lavora ai limiti della saturazione dei più importanti bacini occupazionali. I dati aggregati nascondono infatti alcune disarmonie dell'offerta di lavoro con cui le imprese si confrontano quotidianamente. Per un'economia come la nostra in cui è presente uno dei bacini più rilevanti di occupati nell'industria a livello nazionale - Varese con i suoi 132.000 occupati addetti alla trasformazione industriale è al 7° posto su base nazionale per potenziale industriale dopo Milano,Torino, Brescia, Vicenza , Bergamo e Treviso - è fondamentale poter attingere manodopera nelle fasce centrali di lavoratori. Ebbene, indagando proprio su queste fasce ci si accorge che il 3,4% di disoccupazione media nasconde in realtà uno spaccato assai più complesso che porta, ad esempio, gli uomini tra i 30 ed i 64 anni a registrare un tasso di disoccupazione dell'1,3%. Ecco allora che si spiega la diffusa sensazione degli imprenditori che esista una carenza strutturale di manodopera. Il problema di questa provincia è che essa sembra poggiare su un bacino di potenziale occupazione saturo in cui agisce un doppio "vincolo", se così lo si vuole chiamare: quello di avere uno scarso "serbatoio" di disoccupazione da attivare e quello di avere pochi margini per aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, poiché nella fascia centrale - uomini tra i 30 ed i 64 anni - si registra un tasso di occupazione che supera l'80%. E allora si pone il problema di dove cercare quei famosi operai specializzati che sono la fonte primaria dello sviluppo delle imprese nel tempo. Scavando negli anfratti delle statistiche si trovano conferme alla situazione di mancanza di figure professionali. Il calcolo è presto fatto. I margini per aumentare l'occupazione nella nostra provincia si trovano, a parità di condizioni esterne, in due categorie di persone: le donne ed i giovani. Per quanto riguarda la partecipazione femminile al mercato del lavoro si deve rilevare che, pur con qualche fluttuazione essa è costantemente aumentata nell'ultimo decennio.
Tra la donne della provincia di Varese nella fascia di età centrale, 30-64 anni, la disoccupazione si attesta al 4,0%, circa il triplo di quella maschile, ma pur sempre la metà di quella nazionale. Si tratta di un tasso che, nel suo complesso, può essere giudicato relativamente vicino alla disoccupazione "naturale" di sistema.
E' invece il tasso di occupazione che riserva alcuni margini di manovra. Esso raggiunge infatti solo il 54,1%. Significa che solo una donna su due lavora in maniera continuativa. Passando dalle percentuali ai valori assoluti si può valutare in circa 95.000 il numero di donne tra i 30 ed i 64 anni che non sono attualmente occupate. Facendo qualche calcolo, nell'ipotesi semplificatrice che il tasso di occupazione femminile possa raggiungere il 60%, ossia il target medio posto dall'Unione Europea per le donne nel 2000 a Lisbona, sarebbero circa 12.500 le persone potenzialmente coinvolgibili. Un numero comunque non elevato, destinato a ridursi ancora di più se si tiene conto della bassa propensione femminile a lavorare nell'industria manifatturiera. In quest'ultimo caso, scenderebbero solo a 3.500 le donne potenzialmente coinvolgibili. Circa una ogni tre imprese manifatturiere - industriali o di artigianato produttivo. Ancora troppo poco per le esigenze di crescita del sistema. L'altro grande bacino che si può esplorare, con le statistiche disponibili è quello dei giovani. Un universo che appare assai differenziato al proprio interno con situazioni molto diverse distinte per fasce di età.Se nella media tra i 15 ed i 29 anni il tasso di disoccupazione è pari al 7,0% è anche vero che esso si accompagna a differenti tassi di occupazione che caratterizzano la partecipazione dei giovani al mercato del lavoro. Tra i giovani "Senior", ossia quelli tra i 25 ed i 29 anni, ben l'82,7% è occupato. Ciò confermerebbe che, una volta che si è sicuramente concluso il ciclo di studi, i giovani hanno una buona probabilità di lavorare e, salvo qualche frizione all'entrata, riescono generalmente a trovare un'occupazione.
Diversa è la realtà per i giovani "Junior" (15-24 anni) tra cui il tasso disoccupazione è di poco superiore al 10%, con punte che toccano quasi il 13% nel caso delle donne. Per questa categoria il tasso di occupazione tocca appena il 37,6%.
Due fenomeni, quello della bassa occupazione e quello della disoccupazione elevata, che vanno letti con attenzione. Il primo dipende in larga parte dalla fascia di età considerata che coincide spesso con la frequenza scolastica e, successivamente, con quella universitaria.
Il secondo, la disoccupazione, sembra essere il frutto di un mix tra più fattori. Primo fra tutti il fattore "disorientamento", che porta l'offerta di lavoro in uscita dalla scuola ad avere specializzazioni e professionalità diverse da quelle richieste dalla composizione del tessuto produttivo. La situazione si complica ancor di più quando al disorientamento iniziale si aggiunge un livello di aspettative elevate e poco flessibili che ritardano, nei fatti, l'ingresso nel mercato del lavoro reale. La combinazione disposta dei due fattori porta ad effetti per cui tutti desiderano essere public relation manager, ma nessuno vuole più fare il montatore di macchine utensili in una provincia in cui circa 4 occupati su 10 lavorano nell'industria manifatturiera.
La fotografia che emerge da questa prima e frettolosa analisi è quella di un mercato del lavoro costretto nei numeri, che ha bisogno di fluidificazione nelle sue vie di accesso.
Un mercato che per essere messo a fuoco necessita di un secondo livello di analisi che ponga a confronto l'istantanea scattata con la statistica con quella, da scattare, attraverso un'analisi sociologica dei comportamenti.

03/25/2004

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