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Ad Arona Ligabue come Van Gogh

Un'appassionante antologica dedicata ad Antonio Ligabue nelle sale della Villa Ponti di Arona. In mostra, la leggendaria esistenza del "Van Gogh della Bassa".

Autoritratto, anni '50, olio su tavola, 72 x 55 cmUn sorprendente olio con un bambolotto nudo, abbandonato accanto a un mazzo di coloratissimi fiori, e una maschera in gesso, quella funeraria dell'artista, eseguita da un amico scultore, che potrebbe sembrare essa stessa una scultura uscita dalla sua mano. Se non fosse che, a ben guardare, la fronte di Antonio Ligabue si rivela, per la prima volta, libera dalla spinosa corona delle sue intense rughe e il pendulo labbro inferiore pare atteggiarsi al sorriso in un'espressione d'assorta dolcezza. Quel bambolotto dimenticato e quella maschera, di un viso alla fine illuminato dalla pace, sembrano rappresentare, o almeno così ci è sembrato, l'alfa e l'omega dell'intrico d'arte e di dolore che fu la vita di Antonio Ligabue. Una vita il cui percorso è tutto da cogliere nell'appassionante antologica offerta ai visitatori nelle sale della Villa Ponti di Arona e realizzata, per le cure di Emanuela Boscolo e Carlo Occhipinti. Si tratta del secondo appuntamento con Ligabue promosso dal Comune di Arona, a distanza di cinque anni. Nel 1999 la prima rassegna dedicatagli dalla Città, che inaugurò la serie "Grandi mostre per Arona", registrò la presenza di ben 18.000 visitatori, ma questa volta l'esposizione, grazie ai prestiti di galleristi italiani e svizzeri e al sostegno economico della Regione Piemonte, s'allarga fino ad ospitare 150 opere - tra pitture, sculture, disegni e incisioni - di cui molte mai comparse in pubblico prima d'ora. Confermando così la cittadina piemontese quale primario polo di attrazione turistico culturale per il territorio e l'intero bacino verbanese.
Pare naturalmente scontato parlare di inscindibilità di arte e di vita a proposito di un uomo fattosi conoscere essenzialmente attraverso le sue opere, ma per Ligabue l'arte ha davvero rappresentato il tutto: fu la salvezza, il suo mestiere di vivere, la tana rassicurante che lo sottraeva alla curiosità maligna di chi coglieva in lui, più che il fuoco della genialità, il marchio della follia. E di chi non poteva fare a meno di additare o sbeffeggiare il matto di paese, lo scomodo senza famiglia che andava comunque evitato, abbandonato al suo randagismo, assimilato alle pantegane, ai rapaci, alle fiere, a tutti quegli animali dall'aspetto inquietante che a lui piaceva ritrarre nei suoi quadri. Fu, la leggendaria esistenza del "Van Gogh della Bassa" - una vertiginosa alternanza di sofferenza e di esaltazione, di prigionia e d'una libertà selvaggia fruita, ai margini dell'umano consorzio, al prezzo d'una solitudine pressoché totale e disperante.
Nato a Zurigo nel 1899 da una domestica di Asiago, Elisabetta Costa, che lo registrò anagraficamente come Antonio Costa, fu poi legittimato dal compagno di lei Bonfiglio Laccabue. Infelice d'aspetto, fu consegnato dalla madre a una coppia di svizzeri tedeschi, nel circondario di Sangallo, a Tablat. Elisabetta non vorrà mai più rivedere quel figlio goffo e indesiderato. Sarà poi la matrigna, turbata dai problemi mentali di Antonio, a farlo espellere definitivamente dalla Svizzera nel maggio del 1919: destinazione il paese di Gualtieri, patria dell'uomo italiano che gli aveva dato il nome. Dalla nativa Svizzera e dai collegi per handicappati dell'infanzia, Antonio approderà dunque agli ospedali italiani per malati di mente della bassa padana. Ad accoglierlo definitivamente sarà, nel '62, l'ospedale Carri di Gualtieri, a Reggio Emilia. Qui si spense il 27 maggio del 1965, in preda alla depressione per non poter più fare arte: sul finire della difficoltosa parabola della sua esistenza lo aveva infatti colpito una paresi al braccio destro, proprio quando le sue opere - presentate finalmente al pubblico nelle prime mostre - iniziavano ad incontrare significativi e concreti apprezzamenti dei critici. Ai periodici ricoveri in manicomio Ligabue aveva alternato la sua inquieta quotidianità, ospite nei fienili dei contadini o anfrattato tra le capanne lungo i margini del Po, dove raccoglieva la terra che masticava e plasmava per farne le sue terrecotte. La sua disperata esistenza diventerà leggendaria dopo l'intensa interpretazione televisiva di Flavio Bucci, in un film del 1977. Pochissimi amici lo frequentarono - oltre che i gatti e gli animali da cortile -, non ebbe amore di madre o di donna, e scarsi, e inconsistenti per vivere dignitosamente, furono i guadagni di un'arte che ora vale sul mercato cifre da capogiro.
Tanto più dunque sorprende anche nell'antologica aronese il messaggio di freschezza e di poesia della sua "ingenua" pittura, paragonata dai critici, per la tecnica esecutiva e per gli accesi contrasti cromatici a quella vangoghiana: si vedano i paesaggi, dove riusciva a fondere insieme con il ricordo nordico dei tetti aguzzi della nativa Svizzera, su cieli azzurri e tersi, il vigore della campagna padana, si vedano anche i numerosi e coloratissimi autoritratti e vasi di fiori dove ronzano e volano insetti enormi e pacifici. C'è sapore di favola nella resa pittorica di tante sue "Fattorie", nei superbi ritratti di belve anfrattate nello smeraldo dell'erba, come nella splendida "Traversata della Siberia", realizzata nei primi anni Cinquanta, o nel piccolo, delizioso quadro dedicato al circo. E sorprende, ancora di più, la perizia e raffinatezza della sua mano di scultore e incisore: le incredibili pantere in bronzo, esempi di un'eccelsa arte animalista, i cavalli da tiro, i busti di gorilla, il levriero in terracotta che pare pronto allo scatto, le lotte tra bisonti. Sorprende anche la perfetta interpretazione di quell'unico ritratto scultoreo - una piccola scultura - di Mussolini a cavallo. Ma se Ligabue stabilì scarsi contatti con gli uomini - pochissimi i ritratti di altre persone come anche questa mostra evidenzia - il suo mondo era totalmente dentro di lui: c'era la natura, con i cieli, le piante e tutti gli adorati animali - le fiere, i predatori, gli animali da cortile, gli abitatori del bosco, gli insetti. Non ebbe maestri né modelle, non entrò in nessuna corrente artistica, né fu a contatto con scuole e accademie. La leggenda lo dice non felice e non amato. Forse, nota Giuseppe Amadei, uno dei pochi amici che apprezzò e sostenne la sua arte (e per questo insignito dal sottosegretario al Tesoro Giuseppe Vegas, in occasione della mostra, dell'annuale premio San Carlo per la Cultura e l'Arte), Antonio Ligabue non fu neppure completamente infelice, tanta era la disperazione che lo portava all'indifferenza verso le cose che affliggono la vita dei comuni mortali.
Su quanto felice, o infelice, sia il destino riservato a ciascuno, a noi sembra sempre difficile ragionare. Ma di qualcosa sappiamo che Ligabue fosse convinto: della propria capacità di artista. Su questo - lo urlava egli stesso a chi voleva ascoltarlo - non nutriva dubbi. L'umiliato e malato Ligabue aveva l'orgoglio e la certezza della sua arte. Il cencioso abitante della palude sapeva quanto buone e affidabili fossero le sue mani e che, sotto i cenci e la deformità, c'erano panni e portamento non comuni. Questo ci consola. E ci lascia anche intendere che quel bambolotto abbandonato non fu mai davvero nudo e del tutto solo. A nutrirlo, a inebriarlo, furono il profumo e i colori dei fiori di quella sua sfolgorante arte che lo inseguì, fedele compagna, per la vita.

Ligabue come Van Gogh, Arte, Mito, Leggenda

La grande mostra ad Arona
Villa Ponti, via San Carlo, 63 Tel. 0322/44629
13 marzo - 27giugno 2004
Tutti i giorni (compresi festivi): 10.00/12.30-14.30/19.30
Venerdì e sabato: 10.00/12.30- 14.30/22.30
Intero: euro 6.00 ridotto euro 5.00 - Scolaresche e bambini: euro 1.50
Catalogo della mostra con testi critici di:

Giuseppe Amadei, Raffaele De Grada, Mario De Micheli, Manuela Boscolo.
Prezzo straordinario riservato ai visitatori euro 20.00
(288 pagine - 166 riproduzioni a colori e 66 in bianco e nero) Stampa Etalgraf

03/25/2004

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