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Non prendiamocela con la Coca Cola

Il primo anno del nuovo millennio si avvia alla conclusione lasciandoci in una strana posizione sospesa tra certezze del passato e incertezze del futuro. I fatti dell'11 settembre, la guerra, la recessione economica, tutto sembra concorrere a sfilacciare il presente e a caricare l'anno che verrà di attese trepidanti.
Dopo il crollo delle Torri Gemelle si è levato un coro a dire che tutto non sarà più come prima, che l'approccio dei paesi più sviluppati nei confronti del resto del mondo dovrà cambiare.
C'è probabilmente un fondo di verità in questi moniti, che vanno meditati. Non al punto però di rinnegare i fondamenti della nostra civiltà. Che, seppure abbia dato prova di grandi debolezze fino a pochi decenni or sono, con le numerose guerre che hanno caratterizzato per secoli la nostra metà del mondo, fino a raggiungere nel corso del XX secolo punte vergognose, ha tuttavia guadagnato, proprio sulla scorta di quegli errori, alcune conquiste di civiltà che a noi sembrano avere validità universale. E poiché ci crediamo non possiamo, nell'immaginare il futuro, che partire da quelle.
Libertà, uguaglianza e fraternità, dalla rivoluzione francese in poi sono stati i tre paradigmi sui quali si è costruito l'Occidente che conosciamo e al quale non vogliamo rinunciare.
Le declinazioni di quei valori sono state, anche se con travaglio di due secoli, la democrazia in politica, la separazione tra i poteri dello Stato, la libertà di esprimere il proprio pensiero e di professare qualunque religione, la partecipazione di tutti al progresso economico attraverso, da un lato, la libera iniziativa e, dall'altro, il welfare. E altro ancora.
Se in quelle conquiste ci riconosciamo, abbiamo il diritto e il dovere di difenderle.
Non possiamo tuttavia limitarci a stringerci a riccio, perché sarebbe impensabile ritornare a costruire le nostre città con le cinte murarie, né immaginare di assolvere per sempre il ruolo di poliziotti sullo scacchiere internazionale. Dobbiamo migliorare stabilmente la convivenza con i popoli che hanno culture diverse dalla nostra.
Una certezza è che i legami commerciali sono un ottimo deterrente alle guerre. L'abbiamo sperimentato tra di noi in Occidente e anche nei rapporti tra noi e gli altri. Allargare sempre più la cerchia dello scambio, portare lo sviluppo dove non c'è, deve essere cosiderata una priorità della politica estera occidentale. Forse, con un po' più di lungimiranza rispetto al passato, condizionando aiuti e accordi commerciali alla progressiva estensione delle libertà anche nei paesi diversi dai nostri, per favorire una reale crescita economica e una estensione del benessere alle popolazioni intere, non solo alle caste del potere locale.
Dobbiamo prendere l'iniziativa perché vengano eliminate le sacche di povertà sotto le quali cova l'acredine verso i popoli più ricchi. Dobbiamo fare in modo che lo sviluppo si allarghi, nel mondo.
Forse noi occidentali, che ci poniamo ora il problema di essere maggiormente rispettosi delle identità altrui, siamo stati in realtà troppo poco interventisti, non per imporre i nostri modelli culturali, ma perché avremmo dovuto esigere anche altrove l'applicazione di quei diritti fondamentali su cui crediamo si regga ogni civiltà. Forse il nostro errore è stato quello di esserci limitati a praticare i commerci, disinteressandoci dell'uso della ricchezza ottenuta, con quegli stessi commerci, dai paesi meno progrediti.
Probabilmente, l'errore che potremmo ora commettere non sarà quello, come da qualche parte si sostiene, di continuare a vendere Coca Cola (e, parallelamente, importare altri beni locali) nei paesi di cultura diversa dalla nostra, ma di lasciare che il circolo virtuoso che si genera intorno agli scambi commerciali abbia ad avere ricadute benefiche solo su pochi privilegiati, anziché sui più.

11/15/2001

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