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Una crisi imprevista ma non imprevedibile

In meno di due anni il prezzo del petrolio è passato da 9 a 37 dollari. L'analisi dell'economista Alberto Clò.

Con inquietante puntualità, il mondo intero si trova a dover fronteggiare una nuova “crisi petrolifera” – la quarta negli ultimi tre decenni – dopo quella del Kippur del 1973-74, quella iraniana del 1979-80, quella irakena del 1980-81. I prezzi del petrolio, dopo aver toccato minimi di 9-10 dollari al barile (doll./bbl) all'inizio del 1999, hanno preso a crescere superando i 15 dollari ad aprile, i 20 ad agosto, i 25 a novembre, per attestarsi e oscillare dalla metà del 2000 intorno alla critica soglia dei 30 dollari, con punte a settembre superiori ai 37 dollari.

Nessuno aveva previsto che ciò potesse accadere, tantomeno i governi colpevolmente convinti che della “questione energetica” non volesse più di tanto preoccuparsi. L'attuale crisi ha, invece, riproposto in modo traumatico due elementari verità.

Primo: che l'economia mondiale molto dipende dalle condizioni economiche e politiche di accesso ai mercati petroliferi, che ancora assicurano circa il 40% di tutti i fabbisogni energetici.

Secondo: che le ragioni di criticità che originarono le passate crisi petrolifere non sono state affatto riassorbite in strutturale. Esse, anzi, sono destinate in futuro ad accentuarsi: ove si consideri che l'offerta di petrolio è ineludibilmente destinata a concentrarsi sempre più nelle zone calde del Medio Oriente, depositarie del 65% circa di tutte le riserve mondiali di petrolio, ma partecipi oggi dell'offerta mondiale per poco più del 30%.

La questione più critica, oggi come in passato, non è data quindi dalla scarsità assoluta di riserve di petrolio – la cui consistenza è anzi raddoppiata negli ultimi 20 anni – ma piuttosto dalla loro concentrazione in aree politicamente instabili e ancora largamente chiuse alle imprese petrolifere occidentali dopo la loro espulsione negli anni Settanta.Se non si creeranno le condizioni, innanzitutto politiche, per un ritorno di queste imprese in Medio Oriente, la crisi non potrà che acuirsi di fronte ad un continuo aumento dei consumi di petrolio trascinato dalla crescita economica delle aree in via di sviluppo (soprattutto asiatiche).

Diversamente dalla percezione generale che si è avuta dell'attuale crisi, essa non può imputarsi unicamente a manovre di cartello dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), ma piuttosto al progressivo ridursi dei margini di capacità inutilizzata di petrolio. La possibilità, cioè, di aumentare in un breve arco di tempo i flussi correnti di petrolio. Su una produzione mondiale oggi valutabile sui 77 milioni di barili al giorno, la capacità incrementale è stimata in appena 2,5-3 mil. bbl/g (appena 3%). Se si tien conto che una situazione non dissimile di pieno utilizzo della capacità la si ha anche nelle fasi del trasporto e della raffinazione (con percentuali superiori al 95%), si comprende la forte ascesa dei prezzi in parallelo al sensibile aumento dei consumi indotto dalla favorevole congiuntura delle economie mondiali.

Se la causa prima dell'attuale crisi è data, quindi, dai vincoli che costringono l'offerta di petrolio, il suo superamento non può che consistere nell'eliminazione di questi vincoli. In particolare: accelerare i piani di investimento per realizzare nuova capacità produttiva di petrolio in Medio Oriente, in Nord Africa, ma anche nelle nuove “terre fertili” nel Golfo del Messico, del Brasile, del Mar Caspio. Le riserve sono state individuate; le tecnologie di estrazione hanno fatto passi da gigante, specie nelle acque profonde dove si sono raggiunti i 2.000 metri sotto il livello del mare; le risorse finanziarie non mancano. Ciò che manca è un quadro favorevole di condizioni politiche internazionali che consenta alle imprese di operare là dove sussistono maggiori probabilità di successo.

Tali condizioni non possono che essere favorite dalla politica. In particolare: da una decisa azione dell'Unione Europea volta a rafforzare le vie del dialogo, della cooperazione, della reciproca interdipendenza tra Europa e paesi produttori. Questa strategia è ineludibile, in considerazione del fatto che l'Europa abbisognerà in futuro di sempre più petrolio e sempre più gas metano (entrambi di importazione), avendo di fatto colpevolmente abbandonato o sterilizzato sia il carbone che il nucleare, mentre il contributo addizionale delle fonti rinnovabili non potrà che mantenersi del tutto marginale nei prossimi 2-3 decenni.

Se la strategia di nuove relazioni internazionali idonee a favorire lo sviluppo degli investimenti è la via verso cui l'Unione Europea ed i singoli paesi membri dovrebbero massimamente impegnarsi, i suoi effetti positivi non potranno che manifestarsi in un arco di medio-lungo periodo.

Che fare allora nell'immediato per impedire che il caro-petrolio finisca per soffocare la crescita delle economie? Personalmente, di una cosa sono profondamente convinto: ed è che i governi europei non hanno altra soluzione che una riduzione sensibile, ancorché temporanea della fiscalità sul consumo dei prodotti petroliferi. Il loro prezzo medio al consumo in Europa si è aggirato nel 2000 sui 128 dollari al barile, così distribuiti: 29 ai paesi produttori (23%), 17 alle compagnie petrolifere (13%) e ben 82 ai paesi consumatori attraverso le imposte (64%). Con quale faccia tosta possono i governi europei rimproverare i paesi OPEC di avidità, di insensibilità, di arroganza, quando da un barile di petrolio incassano circa 3 volte i loro introiti sino al paradosso dell'Italia che incassa (da sola) più dell'Arabia Saudita?

Se la causa immediata dell'attuale crisi è, come si è detto, la crescente tensione tra domanda e offerta di petrolio le cause più profonde vanno ricercate nelle errate politiche fiscali, che hanno enormemente accresciuto i loro prelievi dal 1985 in poi, così da vanificare i benefici dei bassi prezzi all'origine del petrolio; in quelle ambientaliste (più che ambientali), che hanno azzerato ogni parvenza di diversificazione delle fonti energetiche impiegate; in quelle internazionali, che hanno accentuato (a causa degli embarghi americani) la distanza con i paesi produttori. Se non si correggeranno queste errate politiche difficilmente la quarta “crisi petrolifera” si supererà. Speriamo, almeno, che essa valga a rendercene conto.

Alberto Clò, Professore Università di Bologna

Nella foto Alberto Clò, Professore Università di Bologna

11/06/2000

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