Varesefocus.
Unione degli Industriali della Provincia di Varese
Varesefocus

 
 

Il mondo come orizzonte

L'internazionalizzazione è fondamentale per la crescita delle imprese, ma l'Italia affronta in quest'ambito un momento difficile, con una preoccupante perdita di quote di mercato. I motivi e le possibili soluzioni. Un'inchiesta realizzata presso le imprese associate all'Unione Industriali mostra, peraltro, a livello provinciale un andamento confortante.


Si fa un gran parlare della perdita di competitività del prodotto italiano. Le statistiche, purtroppo, continuano ad indicare che la quota del made in Italy nel commercio internazionale è scesa dal 4,7% al 3,8% a fronte di una rimonta di altri paesi europei come Francia, Spagna e Germania: quest'ultima, in particolare, ha raggiunto una percentuale sugli scambi mondiali pari al 12%. L'Italia dunque è scesa dal podio che la vedeva, nel 1996, tra i primi quattro paesi al mondo per saldo commerciale positivo, dietro Germania e Giappone e davanti alla Russia. Oggi il suo posto è occupato dalla Cina, mentre hanno tenuto la posizione gli altri tre concorrenti di allora.
L'Italia è ko? Non proprio, visto che l'attivo commerciale tiene, ad esempio, per quanto riguarda i manufatti. E, in particolare, se si punta la lente sul nostro Varesotto si vede che le cose vanno diversamente e c'è ancora una locomotiva export capace di marciare. Ma il processo di internazionalizzazione è qualcosa di più ampio rispetto alla capacità di vendere i propri prodotti all'estero ed entra in gioco un mix di fattori che può fare la differenza.
Per quanto riguarda le imprese varesine, nel loro "piccolo", continuano a mettere il piede al di là dei confini nazionali: un'impronta oggi, uno scambio domani, un'alleanza poi, sono le risposte locali alle polemiche che vogliono ridurre il nostro Paese a "buon cibo e godibile calcio" e ai dati che, a livello dello stivale, danno il commercio estero in caduta libera negli ultimi dieci anni.
Un fenomeno che non è nuovo, in quanto le nostre imprese calcano i terreni dell'internazionalizzazione ormai da 200 anni.
I freni alla competitività
Sulla base di dati del ministero delle Attività produttive, che ha condotto nel 2005 un sondaggio tra 300 imprese italiane operanti nei diversi settori produttivi, si riesce a focalizzare quali sono i "talloni d'Achille" alla competitività del made in Italy. Al primo posto vi sono i gravami sul costo del lavoro che pesano moltissimo per l'83,6% del campione, ma anche il peso della burocrazia è giudicato un fattore molto frenante per il 61,2% degli imprenditori e la concorrenza asimmetrica delle economia emergenti pesa abbastanza per il 60% degli intervistati.
Dalla stessa indagine è emerso che molti imprenditori non conoscono adeguatamente gli strumenti messi in campo da vari soggetti per l'internazionalizzazione e il più oscuro di tutti è risultato il desk per l'assistenza legale contro dumping e contraffazione approntato dal Governo. In altre parole esiste una certa confusione generata anche probabilmente delle troppe cartucce spese per missioni all'estero e incontri che creano sovrapposizioni inutili.
E' certo che sul tema della capacità di competere delle imprese scorrono oramai fiumi di inchiostro e il dibattito è stato piuttosto acceso nel corso dell'ultimo mese e mezzo, dopo che dalla Banca d'affari Goldman Sachs è arrivato uno sprezzante giudizio secondo il quale all'Italia sarebbero rimasti solo cibo e calcio come risorse sulle quali puntare. Una visione alquanto riduttiva, ma che ha messo il dito nella piaga della perdita di competitività del nostro Paese. Una perdita che è stata ribadita anche dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo che ha stigmatizzato le lacune che stanno mettendo un freno alla capacità di competere fuori dai confini nazionale. Secondo il numero uno degli industriali occorre meno burocrazia, meno presenza dello Stato nell'economia e anche una azione più coordinata e meno caotica nel sostegno delle imprese all'estero. Insomma troppe missioni, troppi attori e pochissime risorse non possono aiutare le imprese ad andare alla conquista di nuovi mercati.
Da Varese uno sguardo sulla Ue allargata
Di fronte a ciò le imprese varesine dimostrano, in molti casi, di non essere comunque intimorite dalla possibilità di allargare gli orizzonti. Un sintomo di questa vitalità si può trarre dai dati forniti da un'indagine fatta dall'Unione Industriali della Provincia di Varese tra le imprese associate e relativa ai rapporti di affari con i dieci paesi che hanno aderito all'Ue a maggio del 2004. Più scambi, discreta soddisfazione e prospettive - nella stragrande maggioranza dei casi - di incremento o stabilità. In altre parole arriva una conferma di quanto più ampiamente messo nero su bianco da una precedente indagine fatta da Confindustria a livello regionale sui processi di internazionalizzazione della imprese associate (si veda il box).
Guardando le risposte delle imprese (78 sono le aziende del campione) all'indagine sui rapporti con i new comers, come sono stati ribattezzi i 10 nuovi Stati membri dell'Unione, si nota che in tutti i casi i rapporti con i Paesi di nuova adesione erano già esistenti prima del maggio 2004, ma che dopo l'inizio del processo di adesione vi è stato un incremento in alcuni casi anche del 50%. Così ad esempio è successo per la Polonia (ai 44 rapporti d'affari pre adesione se ne sono aggiunti dopo altri 18), per la Repubblica Ceca (11 i nuovi rapporti contro i 34 precedenti), Slovacchia (10 contro 21). Meno bene invece, e crescita più modesta, per Lituania (3 contro 9) e Malta (2 contro 16). In generale dunque ci si trova di fronte a un consolidamento di posizioni che erano già preesistenti. Per taluni casi, l'interscambio commerciale ha superato, dopo l'adesione, il milione di euro.
Si conferma, insomma, quello che da molte parti è stato sostenuto e cioè che l'adesione ha avuto un effetto propulsivo sugli scambi commerciali tra Europa a 15 e nuovi paesi anche grazie all'aumentato potere di acquisto per i cittadini e al cambio di marcia impresso a quei sistemi economici dall'essere parte di un sistema più grande. Basti pensare che l'economia di questi Stati ha ricevuto una scossa in positivo dai fondi strutturali di coesione che sono stati utilizzati per potenziare gli investimenti destinati all'ammodernamento di infrastrutture obsolete: a questo scopo i dieci nuovi membri hanno ricevuto nel 2004 oltre 1 miliardo e 300 milioni di euro.
Per quanto riguarda poi la soddisfazione degli imprenditori nei loro rapporti di affari si nota come per alcuni Paesi si ha una situazione di sostanziale equilibrio tra soddisfatti e insoddisfatti (Cipro, Estonia, Malta), mentre per tutti gli altri 7 Paesi il numero di coloro che si sono dichiarati soddisfatti supera di gran lunga quello degli insoddisfatti.
L'indagine dell'Unione degli Industriali ha anche mirato a mettere a fuoco quali sono stati i maggiori problemi riscontrati. Al primo posto è stata sottolineata l'assenza di supporto in loco, seguita dalla mentalità e da difficoltà per gli incassi. Meno problematici sono invece risultati trasporti, vincoli burocratici e l'organizzazione in generale. Per quanto concerne, invece, la presenza o meno di barriere qui è stata decisamente scarsa la segnalazione di difficoltà sia per ostacoli di tipo non tariffario che per lingua o distribuzione.
Le prospettive dell'interscambio commerciale con l'insieme dei 10 paesi nei prossimi anni sono di incremento (37 risposte) o di stabilità (23 risposte), mentre assolutamente residuale è il numero di coloro i quali si aspettano un decremento (4 risposte).
Insomma la locomotiva Varese va, ma sicuramente questo non è sufficiente a contrastare la perdita di quote di mercato, di competitività e di attrattività del nostro Paese.
Dall'export all'internazionalizzazione
Una presenza all'estero consolidata fatta di export di beni e servizi, ma in alcuni casi anche di partecipazione a imprese straniere, presenza sui mercati esteri con nuove unità commerciali e produttive. E' questo il volto della globalizzazione targata Varese così come risulta da un'istantanea scattata attraverso un'indagine sui processi di internazionalizzazione delle imprese associate all'Unione Industriali, nell'ambito di un più complesso lavoro che ha coinvolto un po' tutte le imprese del sistema confindustriale lombardo.
I darti emersi per la nostra provincia offrono uno spaccato interessante: su 200 imprese del campione sono state 199 a dichiarare di operare all'estero e nel 37% dei casi si tratta di una modalità scelta fin dall'anno di fondazione. Quali sono le aree di maggiore interesse dal punto di vista geografico? L'Europa resta in cima come mercato di riferimento (31%), mentre se si guarda ai singoli paesi si vede come i tradizionali partner sono Germania e Francia. Ma lo sguardo e gli affari degli imprenditori varesini si rivolgono con interesse anche ad altri mercati come Asia (21,3%), Repubblica popolare Cinese (13,7%), Giappone (10,7%) e a seguire Corea del Sud e India (entrambe al 6,2%).
Se si guarda alle modalità scelte per essere presenti all'estero si vede che la forma scelta maggiormente è quella di unità commerciale, mentre la quota di quanti producono all'estero è contenuta. Solo l'8% del campione ha scelto come forma di internazionalizzazione la costituzione di sedi di rappresentanza all'estero. Alla domanda su quali sono, secondo gli imprenditori, i primi cinque paesi dove le prospettive di business nel breve periodo sono migliori, in ottima posizione si piazza l'area di riferimento tradizionale (i paesi Ue), seguita però dai new comers dell'Europa allargata (13% delle indicazioni), considerati cuori pulsanti e motori dell'economia mondiale.
Ma andare oltre confine comporta anche qualche problema: al primo posto tra le difficoltà sono segnalate le barriere doganali (19%) seguite dagli ostacoli burocratici (13%).
Ribolla: "le imprese varesine da sempre aperte all'estero"
Alberto Ribolla"L'industria della provincia di Varese è da sempre fortemente orientata ai mercati internazionali e anche in questi momenti, difficili per la competitività delle produzioni italiane, le nostre imprese riescono ad esportare più di quanto importano"- sostiene Alberto Ribolla, Presidente dell'Unione Industriali -. "Nel 2005 il saldo della bilancia commerciale italiana è stato negativo per 10.368 milioni di euro. Nel Varesotto, invece (considerando l'ultimo dato reso noto, quello del periodo gennaio-settembre 2005), il saldo è stato positivo per 1.577 milioni di euro grazie ad un buon andamento delle esportazioni, che nel medesimo periodo, sono cresciute del 9,7% rispetto ai primi nove mesi del 2004. Davvero un buon contributo all'equilibrio della bilancia commerciale e valutaria italiana".
Qual è il nostro punto di forza?
"Le porto l'esperienza della mia impresa. In un contesto in cui il cambio euro/dollaro era a noi sfavorevole, ho visto gli americani cercare, la mia e altre imprese, per costruire nuovi impianti. Sì, proprio le imprese italiane, apparentemente contro ogni logica strettamente economica. Volevano noi perché potevamo garantire affidabilità, competenza, serietà, rispetto dei tempi. Potevamo, come dicono i registi, garantire il "Buona la prima!". Queste caratteristiche, questa spendibilità di reputazione del prodotto italiano sono fattori che tengono le nostre imprese nel mercato, nonostante tutto, nonostante una struttura di costi produttivi che ci penalizza, nonostante un mercato energetico che fa le bizze, nonostante una concorrenza che ha raggiunto ogni settore ed ogni comparto".
Carlo GallazziCosa chiedono, in termini di sostegno alle attività di internazionalizzazione, le piccole imprese? Lo domandiamo a Carlo Gallazzi, neo-presidente del consorzio export-import Provex che ha sede a Gallarate.
"Le domande di aiuto che arrivano al nostro consorzio sono tante, ma più di tutto mi sembra che la necessità di fondo sia non di ordine operativo, ma strategico. Il dover risolvere le problematiche quotidiane urgenti rende difficoltoso, per l'imprenditore, potersi fermare a riflettere sull'evolversi del mercato e sulle possibilità offerte per migliorare e sviluppare la propria azienda. Si arriva così ad un momento estremo in cui bisogna decidersi a cambiare per sopravvivere. Le decisioni che si prendono devono però basarsi su un progetto ben definito e di lunga durata".
In particolare?
"Occorre definire dei progetti a medio e lungo termine; individuare nuove tipologie di prodotto da introdurre nei nuovi mercati; ricercare fonti di finanziamento per poter sviluppare il progetto al costo più contenuto; instaurare rapporti con i referenti istituzionali e commerciali dei paesi esteri. Ma occorre arrivare anche a gestire in modo veloce i problemi più semplici e, inoltre, migliorare la propria immagine, specialmente per i beni di largo consumo".
Il consorzio Provex è di aiuto in tutto ciò?
"Provex può essere di grande aiuto per affrontare alcune di queste necessità, in particolare nella ricerca di nuovi mercati, ma anche di opportunità di collaborazione produttiva o distributiva. Poi, nel risolvere i problemi più quotidiani connessi con i viaggi all'estero, la partecipazione alle fiere, i trasporti delle merci e altro ancora. Oggi la logica del consorzio è quella di mettere insieme aziende complementari fra di loro in modo che possano collaborare nell'affrontare insieme la penetrazione in nuovi mercati, suddividendo costi ed energie, moltiplicando invece l'operatività e la possibilità di riuscita".
Aggregarsi per competere meglio?
"Certo, questa è la finalità del consorzio ed è proprio ciò su cui intendo far leva anche nel corso della mia presidenza. Favorire l'aggregazione tra piccole e medie imprese non ancora ben strutturate internamente e, dunque, con difficoltà ad affrontare da sole i mercati esteri. Imprese che, per tale ragione, sono interessate ad unire le proprie forze su obiettivi specifici".
Razionalizzare le attività di promozione all'estero
Vincenzo PetroneVincenzo Petrone, ambasciatore in Brasile e fino al 1994 al ministero degli Affari esteri, direttore generale per la Cooperazione allo Sviluppo, da oltre un anno è il direttore dell'Area Affari Internazionali di Confindustria. Con lui facciamo il punto sull'internazionalizzazione e sulla promozione del made in Italy ad opera delle Istituzioni del nostro Paese.
Come funziona questa promozione?
"Le attività d'internazionalizzazione del sistema produttivo coinvolgono una molteplicità di soggetti istituzionali pubblici. Operano, infatti, le Amministrazioni Centrali - cioè i ministeri Affari esteri, Economia, Attività produttive, Università, Ambiente, Agricoltura, Infrastrutture - enti nazionali e società a controllo pubblico come Ice, Ipi, Simest, Finest, Sace, Sviluppo Italia, Enit, le Regioni, molte Province e numerosi Comuni, le Camere di Commercio e l'Unioncamere, le Camere di Commercio italiane all'estero. E' evidente che la presenza di una eccessiva molteplicità di attori, che spesso agiscono in competizione tra loro, se da un lato amplia e incrementa i costi per il contribuente dei servizi offerti (limitati normalmente all'attività di "promotion"), dall'altro, comporta una dispersione degli sforzi, una frammentazione dei programmi oltre a far proliferare iniziative non sempre efficaci".
Quali sono le risorse economiche a disposizione?
"A fronte di uno stanziamento complessivo di circa 300 milioni di euro per l'anno 2005 soltanto un terzo è stato destinato ad iniziative di promozione. Inoltre, si consideri che dei circa 65,4 milioni di euro destinati all'apertura effettiva degli sportelli unici all'estero, una parte purtroppo importante andrà a coprire spese fisse e formazione del personale. E questo è un grave errore".
Il Sistema Italia conta però su una rete di rappresentanza capillare…
"Sì, ma in realtà si tratta di una rete eccessivamente frammentata, frazionata tra 123 ambasciate, 116 consolati, 11 rappresentanze permanenti, 104 uffici ICE, 25 uffici Enit, 42 rappresentanze delle Regioni. La rete delle Camere di Commercio italiane all'estero, poi, è presente in 47 paesi con 139 uffici. La nuova legge 56 del 2005, con l'attivazione dello sportello unico all'estero, aggiunge un nuovo, costoso attore alla presenza italiana, senza razionalizzare il sistema. Dobbiamo ridurre ed accorpare, non moltiplicare.
Emerge l'urgenza di introdurre criteri e strumenti che diano maggiore concretezza alle strategie di internazionalizzazione. Pensi che in India la nostra Ambasciata dispone di un terzo delle risorse dell'Ambasciata di Germania. In compenso, in Svizzera abbiamo dodici consolati. Ce li possiamo permettere? O dobbiamo trasferire queste risorse verso l'internazionalizzazione?"
Quali i nuovi orientamenti?
"Occorre puntare su una identità omogenea e coordinata dell'azione all'estero del nostro paese. Ciò richiede un ripensamento dell'architettura istituzionale e delle relative risorse finanziarie, facilitando l'individuazione netta delle responsabilità e permettendo così la valutazione dei risultati raggiunti da tutti i soggetti coinvolti ed, in particolare, dai centri di spesa.
Non tutte le istituzioni devono fare promozione all'estero. C'è moltissimo da fare in Italia che oggi non si fa. Internazionalizzazione significa anche accrescere la competitività sul territorio, nei distretti attraverso la promozione di azioni di formazione a favore dei quadri e del management, di attrazione di studenti e ricercatori stranieri, di insegnamento delle lingue straniere, di coinvolgimento delle Università, dei centri di ricerca, ecc. In tale quadro le Regioni hanno un ruolo fondamentale, spettando a loro la creazione delle condizioni migliori per fare impresa sul territorio".
Le imprese devono "irrobustirsi"
Fabrizio OnidaA Fabrizio Onida, docente di Economia Internazionale all'Università Bocconi, presidente del CESPRI - Centro studi sui Processi di innovazione e internazionalizzazione, e presidente dell'ICE dal 1997 al 2001, abbiamo chiesto di approfondire il tema della perdita di quote di mercato del nostro Paese e le possibili soluzioni.
Dieci anni fa l'Italia deteneva una quota pari al 4,7% del commercio mondiale, oggi il 3,8%. C'è di mezzo solo la perdita di competitività o c'è dell'altro?
"C'è sicuramente dell'altro. Nel senso che, se andiamo a vedere le componenti della perdita di quota, ci sono delle componenti legate alla struttura per composizione, per mercati e per settori delle nostre esportazioni. Il fatto che l'Italia si sia specializzata in settori che mediamente nella domanda mondiale crescono con velocità inferiore alla media degli altri - settori tradizionali di consumo (abbigliamento, pelletteria, mobili, ecc.) in cui la domanda cresce, ma meno velocemente rispetto a settori più "moderni", quelli legati a Internet, piuttosto che la chimica o la logistica - di per sé comporta una perdita graduale di quote di mercato. Alcuni esercizi nel rapporto annuale dell'Ice mostrano quest'effetto: dall'ultimo, appare che se consideriamo la caduta tra il '97 e il 2004, circa 2/3 di questa derivano dal cosiddetto effetto di struttura settoriale, in quanto questi settori hanno una crescita meno dinamica rispetto alla media. Quindi, se anche l'Italia in ognuno di questi settori non perd
e quota, questo comporta una perdita complessiva. Il restante 1/3 della caduta si attribuisce, invece, alla competitività peraltro legata a fattori non solo di prezzo/costo ma anche a capacità commerciale".
Goldman Sachs ha affermato che all'Italia restano solo cibo e calcio. Il giudizio è ingeneroso e contraddetto dai fatti. Ma ritiene che, sul piano immaginifico, contenga un fondo di verità, almeno come trend?
"Nell'affermazione c'è una punta di verità. Nella parte di prodotti made in Italy costituiti da beni per la persona, nella fascia cioè bassa e medio bassa, c'è crisi per colpa delle produzioni a basso costo prevalentemente asiatiche. L'affermazione, tuttavia, è falsa perché sia nei settori tipici made in Italy, come la moda, sia in quelli in cui abbiamo vantaggi competitivi, come la meccanica strumentale, elettrodomestici, materiali da costruzione o prodotti siderurgici, il prodotto italiano non è messo in crisi dalla concorrenza dei bassi salari: si tratta di settori dove la concorrenza è basata su costo del capitale, tecnologia dei processi produttivi e qualità produttiva. Ad esempio, la versatilità nella meccanica strumentale dove, negli ultimi anni, l'Italia ha addirittura recuperato quote rispetto ad altri paesi come la Germania. Questo riguarda anche la provincia di Varese".
Su che cosa dovrebbero puntare i nostri imprenditori per riconquistare i mercati internazionali?
"Occorre che il "ceto medio" - quelle 500/ 600 imprese leader che costituiscono il nocciolo duro delle esportazioni - possano continuare nella loro strategia di penetrazione dei mercati, facendo investimenti commerciali e produttivi, acquisizioni di marchi all'estero, strategie di promozioni del proprio marchio aziendale (che all'estero conta di più della generica immagine del made in Italy). Senza dimenticare, sempre ricorrendo all'annuale rapporto dell'ICE, che fatto 100 le esportazioni italiane, il 42% viene da imprese con più di 250 dipendenti (cosiddette grandi, ma ne fanno parte anche le medie), il 28% da imprese che hanno da 50 a 250 dipendenti (cosiddette medie, ma sarebbe meglio definirle medio-piccole), il restante 30% da imprese con meno di 50 addetti. Significa che 2/3 quasi delle esportazioni si reggono nella loro dinamica su imprese che hanno superato le soglie più basse della dimensione organizzativa e manageriale. Occorre che molte imprese che hanno bisogno di una fase di espansione sui mercati continuino ad irrobustirsi. Le sole imprese piccole non possono reggere la competizione dal basso dei paesi a basso costo e quella dall'alto dai paesi a struttura più sofisticata della nostra".
Dobbiamo considerarci portatori di meraviglie
Valerio Festi e Monica MaimoneAbbiamo chiesto a Valerio Festi il "grande visionario della festa" - fondatore insieme alla moglie Monica dello Studio Festi di Varese, che organizza eventi di livello internazionale (come, di recente, la regia di parecchi segmenti dello spettacolo di apertura delle Olimpiadi invernali di Torino) - un pensiero sui punti di forza dello "stile italiano".
Nel volume "La via italiana della moda", a cura di Paola Chessa Pietroboni (edizioni Il Sole 24 Ore, 2005), la curatrice sostiene che le doti di creatività e manualità e il buon gusto tipici dell'Italian Style sono da ricondurre storicamente al frazionamento della Penisola, nei secoli scorsi, in molti reami e principati e alla conseguente promozione di attività di artigianato artistico (nei campi del mobilio, dell'arredo, dell'abbigliamento, della cucina, della musica, delle arti figurative, ecc.) che hanno coinvolto schiere di artigiani e di artisti entrati in contatto con la raffinatezza tipica delle corti principesche. Condivide questa lettura?
"Si tratta di una tesi affascinante; indubbiamente l'Italia è un Paese composto da tanti Paesi, che hanno guerreggiato e gareggiato tra loro; e questo, insieme al proliferare delle Corti, ha fatto nascere quello che giustamente viene definito 'artigianato artistico', cioè la continuità del lavoro progettuale produttivo, tramite le 'botteghe', nelle quali si passava l'arte del fare da maestro ad allievi o da padre a figlio. Credo che ci sia un altro aspetto da sottolineare. L'Italia è patria del Rinascimento: e il Rinascimento è l'unica forma di pensiero occidentale - dai tempi della Grecia classica - in cui si afferma il primato dell'arte, del bello, su ogni altro aspetto della vita quotidiana. Pensiamo alle mirabili città, nelle quali venivano esposte mirabili opere. Non chiusi Musei, nei quali visitare 'il bello' pagando un biglietto, un'occhiatina e via. Ma città intere che diventavano sede di progetto e di lavoro dei più grandi artisti dell'epoca. Artisti che concepivano l'opera d'arte pe
r le 'masse', diremmo oggi (anche se le 'masse' di allora erano naturalmente di ben diverso numero). E quindi, comprensibili, narrative e utili. Artisti poliedrici, che erano in grado come Leonardo di passare da musico di corte (dagli Sforza) a grande apparatore (sempre a Milano, ma anche a Firenze e a Roma) a architetto, a designer… E Botticelli, con i suoi abiti meravigliosi che diventavano 'icone' della moda dell'epoca. Ecco, questa è la nostra grande peculiarità, la mirabile eredità del Rinascimento: la bellezza come 'sale' della vita quotidiana. A volte questa idea si smarrisce, ma siamo ancora in grado di pensarla".
Lo "stile italiano" evoca fascino, qualità, fantasia. In un certo senso, va oltre il "made in Italy" inteso come luogo di origine delle merci, supera la materialità della produzione e accomuna prodotti di diversa natura. Non a caso, il Chianti ha recentemente scelto come immagine pubblicitaria una bottiglia dal cui collo esce un tessuto di pregio dal colore del vino. Che cosa ritiene identifichi oggi meglio questo stile?
"Anche qui si può citare la totale osmosi nel percorso idea-progetto-produzione, di cui parlavamo innanzi a proposito del Rinascimento. E del 'concertato' tra i mestieri del, chiamiamolo così, piacere. Cosa ben diversa del concertato del lusso francese. Non si tratta, per lo stile italiano di affermare valori estetici attraverso l'esclusività del possesso; ma di affermare quel 'mirabile composto' che rende la vita nel suo insieme piacevole, godibile, affabile.
Stiamo però parlando di una tendenza, di una evocazione appunto, che non sempre riesce ad affermarsi come tratto qualificativo esemplare. A volte emerge lo scarso concetto che gli italiani hanno di se stessi e del proprio Paese. Si fa fatica a descrivere l'Italia, a raccontarla, la si vive divisa da una dicotomia che sembra insanabile tra 'strada' e 'salotti' (facendo un'esemplificazione grossolana). Per piacere a tutti si tende a negare il bisogno di tutti di aspirare all'eccellenza e si presenta la mediocrità come un obiettivo da raggiungere. Peccato non veniale, ma mortale. L'Italia può essere cantata e raccontata e vissuta partendo proprio dalla sua unicita': una qualità irrinunciabile, innervata da un'elaborazione e da un patrimonio artistico (e di artigianato artistico) unici al mondo".
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di TorinoOltre ai prodotti, esiste davvero anche uno stile di vita italiano? In che cosa si caratterizza?
"Nella 'femminilità' del Paese. L'Italia è donna, non me ne vogliano i latin lovers. E' donna perché ha memoria, è donna perché è affascinata dal fascino, è donna perché combatte ancora per il diritto di mangiare bene e lentamente, è donna perché nella sua incostanza ha un'incredibile capacità di equilibrio, è donna perché precaria, sensuale, attrice e incapace di ammirare se non è ammirata".
Come mantenere nel tempo questo stile di vita e come promuoverlo verso un pubblico straniero?
"Aver coscienza che la mondializzazione ci ha resi un bruscolino nel fremere dei continenti e dei paesi con miliardi di abitanti che stanno sconvolgendo il mondo. E, contrariamente a quello che molti pensano, non abbiamo niente da vendere, perché tutto il copiabile ci è stato copiato e perché le nostre bellezze (naturali, architettoniche, paesaggistiche) sono spesso sfigurate dalla noncuranza di chi non sa - e non ha saputo - di avere ancora visibili gli imperi, i culti, i pensieri che hanno formato il nostro mondo. Quindi: turismo? In calo; moda? In calo; tessile? In calo; cibo: ancora per un po'. L'Italia, quella non si è capaci di venderla. L'Italia come crocevia di culture, di città meravigliose e incognite, di una potenzialità di ricchezza che ci viene dalla nostra storia, dalla quale non dobbiamo, non possiamo staccarci, negarla, ignorarla. Amiamo quello da cui veniamo e sapremo dove sarà necessario andare".
Vede la possibilità di contaminazione positiva tra diverse tipologie di produzione?
"Non la possibilità, la necessità. Gallerie d'arte che sono caffè o ristoranti nei quali è possibile fare shopping. Ma anche (e già avviene): accostare esposizioni di giovani artisti e di giovani stilisti. Rintracciare inevitabili interazioni tra moda e design d'oggetti, ma anche design del cibo. E, soprattutto, portare bellezza nelle strade, nelle piazze, tra la gente. Levare il plumbeo notturno dalle nostre città: insegnare prima di tutto a noi stessi a guardare i nostri habitat, non considerarli solo luoghi di transito. E quindi a preservarli, migliorarli, amarli, festeggiarli".
Spesso, non sempre correttamente, si sottolinea una debolezza del nostro Paese nella ricerca e nella tecnologia. Può il buon gusto imprimere valore aggiunto e contribuire a "tenere " i mercati? Le viene in mente qualche esempio?
"Direi non il buon gusto, ma il gusto. L'essere umano è in perenne ricerca. E' in perenne ansia di miglioramento tecnologico, di superamento dei suoi limiti e dei limiti del sapere. Il gusto è violazione dell'ignoto nella consapevolezza che al centro di tutto (si pensi al Rinascimento) sta l'uomo. La ricerca e la tecnologia non sono una sfida fine a se stessa, un gioco dell'intelligenza. Sono l'intelligenza. Quella che ci ha portato a varcare i mari, ad arrivare nel medioevo in Cina, a inventare la via della seta, a scoprire il segreto dei vulcani, a creare la democrazia… Ad affermare il gusto per la vita. Ed è al miglioramento della vita, tutta, nel suo insieme, che il nostro mondo apparentemente freddo e lontano dai bisogni quotidiani, si applica con tenacia".
Se dovesse dare un suggerimento agli imprenditori italiani per promuovere i loro prodotti all'estero, su quale elemento punterebbe?
"Comunicare, comunicare, comunicare, far stupire, meravigliare. Eventi che non si accompagnino, ma che 'narrino' il prodotto, con un linguaggio italiano ma nel contempo universale. Diffondere la vitalità: considerare che, per superare Paesi più forti di noi dal punto di vista commerciale, è necessario considerarsi portatori di meraviglie. Far sgranare gli occhi al mondo".

02/24/2006

Editoriale
Focus
Economia
Inchieste
L'opinione
Territorio

Politica
Vita associativa
Formazione
Case History
Università
Storia dell'industria
Natura
Arte
Cultura
Costume
Musei
In libreria
Abbonamenti
Pubblicità
Numeri precedenti

 
Inizio pagina  
   
Copyright Varesefocus
Unione degli Industriali della Provincia di Varese
another website made in univa