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Frontalierato, ecco perchè si rafforza

Il frontalierato continua ad essere regolato da vecchie convenzioni tra Italia e Svizzera che risentono del periodo in cui l'emigrazione era una necessità. Oggi si va a lavorare in Svizzera per guadagnare di più, ma anche per beneficiare di vecchi privilegi.

In termini percentuali rappresentano solo il 5% degli occupati, anche se in cifra assoluta mostrano di essere tanti. Sono i quasi 34.000 frontalieri che, dalla cosiddetta Regione Insubrica - le province di Verbania, Varese e Como - si recano a lavorare nel vicino Cantone Ticino. E' una fetta non trascurabile della popolazione attiva, in un'area dove il lavoro non manca: un'area che assicura un'occupazione a circa 662.000 persone. Poco meno del 60% dei lavoratori frontalieri è occupato nei settori dell'industria e delle costruzioni. Il 40% nel terziario, mentre meno dell'1% in agricoltura.
Negli anni '50 e '60 il lavoro oltre confine rappresentava in molti casi un'ancora di salvezza nelle difficoltà presenti sul mercato del lavoro interno. Il nostro Paese ha così incentivato il frontalierato, mediante la sottoscrizione di alcune convenzioni con la Confederazione Elvetica con le quali si è disciplinato il trattamento fiscale, previdenziale e assistenziale dei frontalieri. Si è trattato di convenzioni favorevoli, sia per i lavoratori, sia per la stessa Confederazione. Il reddito di lavoro viene tassato in Svizzera e quest'ultima si limita a riaccreditare ai Comuni italiani della fascia di confine una percentuale delle entrate tributarie. I frontalieri hanno avuto (e continuano ad avere, grazie ad un recente provvedimento legislativo: vedasi in proposito il box) la possibilità di vedere riconosciuta in Italia l'anzianità contributiva e ottenere in tal modo la liquidazione di un'unica prestazione pensionistica: una facoltà particolarmente interessante perché dà diritto a percepire integralmente in Italia la pensione di anzianità (quella che i lavoratori italiani ottengono con almeno 35 anni di lavoro) che, invece, in Svizzera non è prevista in quanto il trattamento pensionistico è legato unicamente al raggiungimento dei 65 anni di età.
I frontalieri, infine, hanno diritto, in quanto cittadini italiani, all'assistenza sanitaria in Italia senza che, come accade nel nostro Paese attraverso l'Irap, le imprese nelle quali lavorano concorranno al sostentamento del servizio sanitario pubblico. E, visto che il reddito dei frontalieri non è rilevato dal fisco italiano, anche, sussistendone i requisiti, senza pagare il ticket. Lo stesso potrebbe dirsi poi anche per gli altri servizi pubblici che, in Italia, sono a carico della fiscalità generale, come l'istruzione dei figli o la formazione professionale degli stessi lavoratori. Un tema, quest'ultimo, che rappresenta un nervo scoperto anche per le imprese italiane localizzate nella fascia di confine: "Investiamo risorse per formare professionalmente giovani lavoratori e poi ce li vediamo scappare in Svizzera", è il refrain di sempre, ancora più insistente negli ultimi tempi in corrispondenza della crescita che il fenomeno del frontalierato ha registrato dopo anni dapprima di regresso e poi di assestamento. Un fenomeno che, salvo gli alti e i bassi della congiuntura che investono anche le imprese al di là del confine, potrebbe essere destinato a crescere: gli Accordi Bilaterali sottoscritti dalla Confederazione Elvetica con l'Unione Europea, entrati in vigore lo scorso 1° giugno, favoriranno infatti la mobilità transfrontaliera. Tanto più se i privilegi accordati a suo tempo ai frontalieri continueranno ad essere mantenuti e se l'attuale disparità tra imprese italiane e svizzere per quanto riguarda gli oneri sociali (contributi previdenziali e ritenute fiscali sugli stipendi pagati) consentirà ancora alle imprese elvetiche di corrispondere retribuzioni nette superiori a quelle riscontrabili nel mercato del lavoro in Italia.
E' evidente che, in un'area come quella della Regione Insubrica, nella quale la disoccupazione reale è tendente a zero, il fenomeno del frontalierato dà luogo a non pochi problemi per il sistema produttivo, che viene, paradossalmente, costretto nelle proprie potenzialità di sviluppo dalla carenza di lavoratori. Ecco allora la necessità di intervenire, adeguando ai tempi le convenzioni a suo tempo sottoscritte tra i due Paesi, per eliminare privilegi inattuali e porre il lavoro, al di qua e al di là del confine, in condizioni di pari opportunità.
Esclusa, come ha ormai chiarito da tempo il nostro Ministero del Lavoro, l'idea di poter compensare il maggior costo del lavoro in Italia con improbabili interventi di sostegno contrari alle regole della Comunità, non rimane che la strada di rivedere quelle convenzioni, che non possono non tenere conto delle novità introdotte con i recenti Accordi Bilaterali che l'Unione Europea ha stipulato con la Confederazione Elvetica. Dopo di che, andare a lavorare in Svizzera potrà essere sempre una libera scelta, in omaggio al principio della libera circolazione dei cittadini che ispira i rapporti tra i paesi civili. Ma senza che ciò sia più artificiosamente favorito da condizioni di miglior favore cui la stessa legislazione italiana si presti. L'epoca dell'immigrazione forzosa dal Varesotto, per fortuna, è finita da un pezzo.

09/25/2002

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