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Richino, l'architetto artista

La personalità eclettica del bustocco Enrico Castiglioni si è espressa principalmente nel campo dell'architettura, ma sono notevoli, per quanto pressoché sconosciute, la sua pittura, la sua scultura e anche la produzione letteraria.

Enrico Castiglioni, detto Richino, nato a Busto Arsizio nel 1914, è stato una personalità artistica complessa, tale da non poter essere rievocata in poche righe. Tenterò tuttavia di farlo chiedendo venia per l'ardire. Il nostro autore è stato docente al Politecnico di Milano e all'Università Cattolica, presidente dell'Ordine degli Architetti della provincia di Varese e ha fatto parte di numerose commissioni di studio (tra le altre, quella per il Piano Territoriale della Lombardia e per le Bellezze Naturali della provincia di Varese), ma - e questo conta di più - straordinaria è stata la sua architettura e notevoli, per quanto pressoché sconosciute, la sua pittura e la sua scultura, mentre di grande rigore appare la produzione letteraria. In particolare, l'architettura spazia dal tema sociale (la Casa della cultura cattolica a Busto Arsizio e le sale d'esposizione della Mostra Internazionale del Tessile a Castellanza), a quello religioso (ricordo la chiesa parrocchiale di Prospiano e quella di Legnano, per quanto la produzione progettuale in questo campo che non ha potuto avere realizzazione sia vastissima e di grande interesse), dal tema residenziale (mi limito a far memoria del quartiere Sant'Anna a Busto Arsizio, della Casa Apollonio a Galliate e di quella Nicolosi ad Acireale), a quello scolastico (la scuola elementare in rione Beata Giuliana a Busto Arsizio, l'ITIS di Castellanza e la scuola nel parco Durini a Gorla Minore) e a quello del restauro (memorabile il recupero e la valorizzazione dell'eremo di Santa Caterina a Leggiuno, sul Lago Maggiore). Interessanti - e non solo a corollario di quelli architettonici - i numerosi lavori urbanistici e non comune l'impegno profuso durante tutta la vita in progetti per concorsi di architettura: ricordo solo quelli per la stazione ferroviaria di Napoli, per il santuario della Madonna delle lacrime di Siracusa, per il Centro Direzionale di Torino e per il Centro Internazionale dell'Artigianato nella Fortezza da Basso di Firenze (quest'ultimo vinto), progetti molto citati dalla critica d'architettura, anche se non sempre dalle giurie.
Per quanto l'ho conosciuto e potuto frequentare io, Enrico Castiglioni è stato un uomo alieno dal fasto delle convenienze sociali e di carriera e dal desiderio di ottenere un facile ed immediato consenso, perché - come egli ha scritto nel volume "La Parola" - "forse un uomo ha moralmente diritto al successo solo quando, veramente, non ne prova più il gusto: quando ha smesso il desiderio per sé e l'ha riversato nella sua idea". Poi, più avanti nello stesso libro: "ho fatto un libro come disegno una cattedrale; che nessuno poi osa costruire, e la adoperano per fare un manifesto. Io mi soddisfo anche così; andando di soppiatto a guardare, incollato a un muro, il mio sogno di una cattedrale: che dura un giorno e una notte, come le feste; poi è sconcio e sommerso dalle carte elettorali e i saponi di gran marca e le belle donne: le cose della vita. Che è, nel giro più breve, di ventiquattro ore, il destino delle architetture e delle città; col vantaggio che io gli duro più a lungo. O forse sono io che ho vissuto un millennio. Il giorno dopo sto meglio, perché ritorno quello di sempre, scontento, a domandarmi la sera cosa faccio domani. E perché lo faccio".
In queste intense parole - le cattedrali erano al colmo dei suoi pensieri, tanto che uno dei suoi testi ha per titolo "Il Tempio come episodio limite dell'architettura" - c'è una buona parte della personalità di Richino, appassionato al suo lavoro, ma anche capace di vedere con disincanto le manchevolezze strutturali del mestiere dell'architetto, i problemi irrisolti, le vertenze sempre aperte, di interrogarsi nel tempo sui significati e sulla moralità di fondo della propria operatività. Di quello stesso Richino che ritornava caparbiamente e soavemente sui suoi dipinti anche a distanza di tempo, perché l'urgenza di esprimersi in un continuo aggiornamento confidenziale era certo più forte di una concezione cristallizzata dell'arte. Se infatti l'architettura era più avara di confidenzialità, madre severa e professionalmente impegnata, pittura e scultura gli davano le ali e anche - direi - il coraggio di un intimismo alto e affettuoso, ricco delle risonanze e degli echi di un perenne rinascimento del cuore, del quale peraltro non si può negare che si intravedono più solenni ed autorevoli richiami nelle architetture.
Schiva ed appartata è stata la vita di Enrico Castiglioni, nella quale - come hanno scritto i presentatori dell'antologia di alcuni suoi scritti uscita nel 2000 (Enrico Castiglioni, "Il significato dell'architettura e altri scritti", Sinai Edizioni, Milano, 2000) - "i riconoscimenti ufficiali, anche quelli molto importanti, sono soltanto estemporanee emergenze e segnali occasionali, a un pubblico europeo, di un instancabile lavoro, che ha chiesto silenzio, operosità multiforme, convergenza di talenti e competenza in un'armonizzazione e sintesi espressiva certamente oggi molto rare, anche per la spiccata autonomia intellettuale e professionale, capace di non essere indifferente allo svolgersi degli eventi storici". Proprio la felicità spontanea della sua pittura, i soggetti e gli attori prevalenti in essa, mi sollecitano una memoria di Richino come grande rappresentante di un'aristocrazia culturale che ha creduto nella sensibilità e nella ricettività della base civile ed ecclesiale (quante volte l'ho sentito esprimersi con rispetto per il sentire spontaneo e sapiente di certe persone semplici e illetterate e con considerazione per le virtù nascoste ma vere dell'asino!) e che testimoniava la sua fondamentale purezza intellettuale. Non vorrei comunque creare equivoci: Castiglioni non era un irenista. Era un eterno dialettico e spesso un efficace polemista. Si poteva anzi non essere d'accordo su alcune sue ferree impostazioni di metodo di lavoro, ma il rapporto con lui era sempre fecondo e molto generoso era il suo contributo nell'incontro personale.
Del resto credo che anche il suo muoversi deciso da posizioni razionaliste e puriste verso lidi espressionisti e brutalisti in architettura faccia parte di una sua visione di scenario urbano e di società meno freddi di quelli correnti, più partecipati ed espansi, quasi che l'organicismo che si cela dietro le sue architetture e i suoi progetti più rischiosi ed appassionati fosse come la manifestazione della recondita speranza di saturare il vuoto della città attuale con il pieno di un'architettura aperta, direi radiante, comunque non pedante e dottrinale. Ma io - e ribadisco - questo "profondo materico" dell'architettura lo vedo riverberato in forme più comprensibili ai più nelle densità pittoriche di un colore intinto nella storia, nella strutturalità gemmea della sua scultura. Certo l'architettura sovrasta nell'orizzonte di attività di Richino, ma il vero Richino non può prescindere, secondo me, da preoccupazioni, progetti, forme e manifestazioni che con l'architettura ne definiscono e perfezionano il complesso ed ammirevole profilo. Vorrei chiudere con parole di Richino: "Già stando a scuola - scrive nel libro "La Parola" - avevo visto gli scienziati; ognuno con gli occhi fissi nella vetrinetta stupefatta dei suoi esperimenti. Io uscivo, in punta di piedi, a prender aria. E sfogliavo, svogliato, le parole esultanti e gli scarabocchietti emblematici dei geni; ciascuno che predicava, per nome della civiltà, un tripudio, così diverso dalla vita che conosco. E mi confidavo nell'arte che non sente l'usura del tempo; non si divora continuamente, e concede una speranza tutta umana".

01/18/2002

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