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Il cielo: lo grattiamo o no?

Nato a Chicago nel 1833, il grattacielo non ha incontrato in Italia un grande successo: si preferivano modelli architettonici locali. In provincia di Varese solo casi rarissimi: Busto Arsizio con un grattacielo di 18 livelli, Gallarate e Varese con poche costruzioni "alte".


Si fa risalire il tutto al "Grande Incendio" che distrusse Chicago nel 1871: i sacri testi sostengono che il primo "grattacielo" fu eretto negli anni successivi per favorire la rapidità della ricostruzione della città. Vero? E' vero in parte poiché il "nonno" del grattacielo vide la luce nel 1833, effettivamente a Chicago, per opera di Gorge W. Snow e fu il primo tentativo di "industrializzare" un manufatto edilizio civile impiegando travi prefabbricate in ferro. In seguito, tra il 1883 ed il 1885, fu W. Le Baron Jenney a realizzare il grattacielo della "Home Insurance Co."; esso si elevava per un'altezza di 13 piani. Da allora in poi la lista si allunga con il "Manhattan Building" del 1890, il Tacoma Building del 1891 (con il quale si affrontarono non solo problemi strutturali ma anche questioni "estetiche", constatando che i moduli compositivi ispirati ai revivals del tempo - neo-romanico, neo-gotico, etc. - risultavano del tutto inadeguati al caso) per non finire neppure dopo il 2000, poiché, oggi, si stanno pensando edifici che dovrebbero spingersi oltre i mille metri di altezza (un gruppo giapponese medita, addirittura, di edificare qualcosa che superi il Fujiyama).
Da quanto fin qui riportato sembrerebbe che siano stati solo gli statunitensi a volersi cimentare con questa tipologia moderna, seguiti solo nel secondo dopoguerra, da alcuni, sparuti gruppi in Asia e in Europa.
In effetti anche l'Italia partecipa all'analisi della problematica che interessa già architetti europei del calibro di Henard, Wagner, Sauvage, Sitte, Garnier e Perret. La pattuglia italiana fa riferimento al movimento futurista, alla tensione che questo ha nei confronti del nuovo e alla volontà di superamento delle condizioni di staticità nelle quali galleggiava l'architettura accademica del periodo. Fanno parte del gruppo, e sfornano pregevoli studi, dapprima Sant'Elia (dal 1914) e Chiattone, seguiti da Virgilio Marchi (anni '20) al quale succede, negli anni '30, la pattuglia di Crali, Rancati, Fiorini, Somenzi e Spiridigliozzi.
Ma, mentre in Italia si discute e si producono unicamente progetti, negli States si continua a costruire (del 1931 è l'Empire States Building di Shreve, Lamb e Harmon, con i suoi 102 piani ed i 448 mt di altezza) puntando sulla moltiplicazione dei piani e sull'innalzamento delle quote sommitali.
In questo campo l'Italia arranca e la prima costruzione "alta" si viene a concretizzare a Milano (per opera della svizzera "Schweizer Verein s.a.") solo tra il 1949 ed il 1952: su un progetto urbanistico di Piero Bottoni e Giovanni Romano, Armin Meili definisce una bella costruzione in stile "internazionale europeo" la quale si articola su una base di quattro piani sulla quale svettano 20 piani di uffici. Il manufatto occupa la testata di Via Palestro, verso piazza Repubblica. Sempre a Milano la Studio BBPR (l'acronimo nasconde gli architetti Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers) mette a punto, nel 1957, la "Torre Velasca" e Gio' Ponti con PierLuigi Nervi, nel 1961, dà vita al "grattacielo Pirelli".
Tutti ottimi prodotti ma che risultano un poco "spaesati" in un ambiente ben diversamente concepito e costruito. Quali le cause che portarono alla realizzazione degli edifici che "grattano" il cielo con le loro cuspidi e quali i motivi che portarono ad un diverso livello di sviluppo nel mondo e nella "vecchia" Europa?
Occorre rilevare che, alla base di tutto, sta l'ampio movimento di industrializzazione che coinvolge il mondo intero a partire dai primi dell''800. Nello specifico: il settore della metallurgia compie passi da gigante e la fornitura di travi in ferro non presenta più alcun problema (in alcune nazioni) né quantitativo né qualitativo. Si aggiunga che la stessa dottrina teorica della "scienza delle costruzioni" subisce, in questo stesso periodo, un cambiamento radicale e si passa da un modello empirico ad uno più propriamente fisico-matematico. Con questi "mezzi" è possibile la "pre-visione" del comportamento dei materiali e, dunque, diviene fattibile il loro pre-dimensionamento, con una accettabile attesa di risultati positivi, escludendo rovine e crolli che, precedentemente, costituivano la maggior remora all'innovazione tecnologica.
Diviene, dunque, possibile determinare quali possano essere i comportamenti di un manufatto, il quale, sempre più spesso, si differenzia rispetto ai modelli tradizionali.
La possibilità di reperire sul mercato locale i materiali necessari alle costruzioni ha sempre contraddistinto le scelte di architetti e di costruttori e, dunque, nazioni con ampie disponibilità di materie prime possono attingere entro una gamma più vasta. L'Europa, in questo settore, e segnatamente l'Italia, comincia a scontare qualche ritardo ed a marcare una certa differenziazione che comporta alcune conseguenze pratiche.
Un altro elemento non indifferente che entra in gioco è dato dalla situazione "geologica" del sottosuolo delle varie città. Per costruire in altezza necessitano fondazioni solide e di costo contenuto: è indispensabile, perciò, che a quote accettabili ed economicamente paganti si trovino strati di terreno con altissime capacità "portanti". La loro mancanza comporta onerose opere di preparazione che, ben difficilmente, riescono ad essere compatibili con piani di finanziamento accettabili.
A questi fattori tecnici si deve aggiungere quello relativo all'incidenza del costo dei terreni che, in talune parti del mondo, comincia ad essere particolarmente elevata. In tale situazione la moltiplicazione dei piani "vendibili" consente una ripartizione percentuale delle spese ben più ampia. La crescita del costo dei terreni viene condizionata dall'esistenza, o meno, di opere poste al servizio diretto o indiretto della costruzione edilizia. Tali servizi possono essere qualificati sia come impianti a "rete" sia come "comodità" di accesso ai servizi primari ed a quelli più ampi ma che sono ricomprese nel settore della "facilità di relazione" con i consimili. Infine, riportando la nostra attenzione ad un'epoca (l'800) nella quale - nonostante i progressi innegabili - le comunicazione interpersonali ed ufficiali - anche se non rare - erano indubbiamente lente, la possibilità di avere molti addetti alle varie operazioni raccolti sotto un solo tetto, diveniva un'allettante possibilità da analizzare e, quando possibile, da concretizzare.
Quando noi volessimo applicare i concetti sopraesposti alla situazione italiana vedremmo che molti degli elementi elencati avrebbero una risposta ben differente rispetto alle situazioni statunitensi. Tali differenze porterebbero, già da sole, a spiegare lo scarso successo del modello "grattacielo" in Italia.
Si aggiunga, incidentalmente nella narrazione ma in modo ben più pesante nella "realtà", che l'Italia appena dopo gli anni '20 ebbe una guida politico-amministrativa che riteneva più opportuno che ci si riferisse a modelli architettonici locali piuttosto che si utilizzassero indicazioni provenienti dall'estero.
In tale situazione la costruzione effettiva di manufatti diveniva utopica e costringeva a scegliere diverse tipologie edilizie. Che questo vincolo nelle realizzazioni non fosse da ascrivere unicamente alle situazioni politiche ma che, piuttosto, fosse un elemento "congenito" nella classe dirigente italiana, trova riscontro nella prassi successiva del secondo dopoguerra: il "tipo" del grattacielo - come abbiamo visto - non trova pressoché applicazione e solo in casi limitati, localizzati in alcuni centri metropolitani, si rilevano alcuni esempi di tali interventi. Pare di poter dire, dunque, che il grattacielo non rientra tra le mete progettuali degli italiani e, salvo i casi di effettivo addensamento e di destinazioni funzionali legate al settore terziario, si preferisce ricorrere ai modelli della tradizione o, al più, introdurre una "via italiana" costituita dalla "casa in condominio".
Nelle città della nostra provincia possiamo individuare solo casi rarissimi (Busto con il suo grattacielo da 18 livelli, Legnano con la sua torre da 18 piani, Gallarate e Varese con poche costruzioni "alte" che dispongono di una decina di livelli in elevazione) le quali vanno a inserirsi entro uno sky-line che si livella su ben altre altezze. Le nostre città sono caratterizzate da un profilo lineare dal quale emergono le costruzioni religiose (ed in particolare i campanili) e le ciminiere (queste in via di estinzione) che sono i "segni" di una tradizione che, forse, sta morendo ma che è ancora forte. La presenza dei nuovi edifici viene sentita come quella di un elemento non congruo, che risulta dissonante anche se, forse, dispone di una sua caratteristica e di una sua dignità architettonica. Lo sviluppo in altezza contrasta con la tradizione della percezione spaziale che, per secoli, ha caratterizzato gli ambiti dedicati alle relazioni sociali in Europa e, soprattutto, in Italia (la "piazza" e la "strada") e che ha fissato in ciascuno di noi una sua "regola" ed una sua misura; esse sono penetrate in noi ed esse, ormai, fanno parte della nostra personalità.
In situazioni di questa natura le proposte di grattacieli che si vanno presentando da più parti ed in varie località del nostro territorio, al di là delle giustificazioni già addotte per la situazione statunitense, possono trovare davvero ospitalità o risulterebbero una sorta di "forzatura"? Anche se è vero che il nostro territorio - che è un bene difficile da riprodurre - non è ampio ma, anzi, risulta sempre più congestionato, è giusto innestare sull'organismo italico un elemento spurio?
Non chiudo qui queste riflessioni ma lascio ad altri un miglior discernimento ed una valutazione complessiva, non legata alla contingenza ma estesa alla società ed all'ambiente nel suo complesso e chiedo che si proceda ad una sua comparazione complessiva. Buon lavoro!

01/18/2002

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