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Nuove centrali bloccate da veti locali e trasversali

Ecco una mappa dei no che gli enti territoriali hanno detto alla costruzione di nuovi impianti sui loro territori, mentre si accende il dibattito sulle fonti alternative di energia.

A ridosso dell'altopiano delle Murge, al confine tra Puglia e Basilicata, ci sono interi tratti dove batte sempre il vento: la zona ideale per impianti eolici per la produzione di energia elettrica. Non inquinanti, e sicuri dal punto di vista dei rischi di incidenti durante il funzionamento, ma…
Il "ma" sono i comitati spontanei che sorgono per dire no alle enormi pale che devono essere poste in punti ben precisi per sfruttare la forza del vento e non possono essere sempre nascoste alla vista dell'uomo. "Deturpano il paesaggio - tuonano i comitati - sono mostri ambientali". Vanno fermati.
Se questo è il quadro di fronte al quale ci si trova con impianti che hanno un impatto inquinante praticamente nullo, ci si può solo immaginare quello che succede quando si parla del varo di una nuova centrale "tradizionale".
A questo punto scatta la difesa: centrali sì, ma "non nel mio cortile" direbbero gli americani che con la sigla "NIMBY" (not in my back yard) indicano una vera e propria sindrome che, nel nostro Paese, si è impadronita delle amministrazioni locali indipendentemente dal loro colore politico. Certo, pur essendo le emissioni delle centrali estremamente ridotte rispetto al passato ed essendo anche diminuiti i rischi connessi alla presenza degli impianti, è comprensibile che a nessuno piaccia trovarsi un complesso di questo tipo proprio fuori casa. Tuttavia di diniego in diniego la situazione rischia di diventare paralizzante: nel 2002 il Governo aveva approvato il cosiddetto "decreto sblocca centrali", che è però risultato di difficile applicazione, dal momento che basta l'opposizione di un ente locale per fermare tutto. E così il decreto del ministero che dà il via libera ai lavori rischia di restare solo sulla carta.
Secondo il censimento condotto alla fine di luglio dal ministero delle Attività Produttive tra il 2002 e il 2003 sono state autorizzate 24 centrali elettriche, pari a 11.837 megawatt. Ma di tanti progetti sono pochi quelli in realizzazione e, ancor più rari, quelli realizzati. Il motivo di tanta lentezza nel procedere? Colpa, da una parte, di una certa incertezza normativa che rende poco facile fare previsioni sulla redditività degli investimenti. Ma ancor più a bloccare ruspe e betoniere ci hanno pensato i cosiddetti veti locali, i no detti dalle amministrazioni minori, cioè Comuni e Province, scese a difendere il loro territorio dalla presenza di nuovi impianti. E nel frattempo - stando sempre alle Attività Produttive - sono in attesa di autorizzazione altri 39mila megawatt: una quantità assolutamente sufficiente per mettere al sicuro il Paese da rischi di black out.
Gli impianti realizzati e che hanno cominciato a viaggiare, anche se a regime ridotto a causa di una normale fase di taratura, sono tre.
A luglio hanno cominciato a immettere energia nel sistema la centrale mantovana di Sermide (Edipower) e quella di Ferrera Erbogne in provincia di Pavia (Eni), mentre qualche settimana più tardi si è avuto il taglio del nastro per l'impianto di Cassano d'Adda costruito dall'Aem di Milano. Ma a fronte di ciò vi è una lunga lista di "incompiute" o meglio di opere mai cominciate a causa proprio dei veti locali.
Quattro sono, ad esempio, le centrali a turbogas che hanno ricevuto parere negativo da parte di altrettante Regioni. Ha negato il suo assenso il Piemonte per la centrale di Leinì, la Toscana per Rosignano Marittimo, l'Umbria per un impianto che dovrebbe essere ubicato a Narni e, infine, il Molise per la centrale progettata a Venafro. La somma dell'energia che potrebbe essere prodotta da questi quattro impianti arriva a 2.330 megawatt. E la sorte toccata ad altre 13 centrali non è per nulla migliore: in attesa che le Regioni si pronuncino sono sospese nel limbo quattro centrali rispettivamente in Lombardia e nel Lazio, tre in Campania, una in Molise e una in Calabria. Il tutto per altri 7.905 megawatt. Ma ci sono anche casi più complessi, dove i dinieghi si sommano e, a volte si incrociano con i permessi. Qualche esempio? In Liguria contro l'impianto di Cairo Montenotte si sono messe Regione, Provincia e ministero dei Beni culturali a cui si oppongono i pareri favorevoli di Comune e dei ministeri di Salute e Infrastrutture. A Bari la proposta per un impianto è passata indenne dall'esame di tre ministeri (Infrastrutture, Salute e Beni culturali), ma si è poi trovata la strada sbarrata per la posizione interlocutoria del Comune. Anche la centrale Enel di Porto Tolle, quella che produce il 5% della potenza di generazione effettiva del Paese, è caduta vittima di un veto. Per essa infatti si era parlato di un progetto di riconversione da olio combustibile ad una emulsione di acqua e bitume naturale, ma i lavori sono andati a rilento per la mancanza delle autorizzazioni regionali. Analoga sorte per l'impianto di Modugno, in Puglia, anch'esso da revisionare e per la centrale di Civitavecchia. Qui la riconversione da olio combustibile a carbone ha trovato l'ostacolo di Comune e Regione che hanno alla fine dato il loro consenso, ma solo per una parziale attuazione dei lavori previsti. Sorte analoga per Termini Imerese.
Stando così le cose i passi in avanti sono modesti e comunque si moltiplicano gli sforzi per cercare soluzioni alternative che permettano, ad esempio, di produrre energia riducendo però le emissioni di gas in atmosfera. E proprio in questa rovente estate si è parlato con sempre maggiore insistenza di tutte le possibili fonti alternative di produzione elettrica.
In particolare l'attenzione, in un contesto di sviluppo sostenibile, si è concentrato sulla possibilità di un maggior utilizzo delle cosiddette fonti di energia rinnovabile, quelle cioè che, a differenza di lignite o carbone, non si esauriscono essendo naturalmente presenti in natura. Acqua, ma anche sole e vento, potrebbero essere una risorsa utile da utilizzare in maniera sempre più massiccia. A dirlo sono, ad esempio, gli orientamenti espressi da mezza Europa, compresa la Germania, paese all'avanguardia nel settore dell'energia. Qui la scommessa è quella di ridurre il ricorso alle centrali nucleari (sono 9 in tutto quelle attualmente in funzione), per affidarsi sempre più alle fonti rinnovabili che oggi rappresentano solo il 6% della produzione. Una percentuale bassa se confrontata, ad esempio, con quella del nostro paese (il 18% dell'energia prodotta arriva dal rinnovabile) dove massiccia è la presenza di centrali idroelettriche costruite tra la fine dell'ottocento e gli anni '60 del secolo successivo per sfruttare una delle poche risorse su cui il nostro territorio può contare. Basti pensare che nel nostro paese sono 350 gli impianti idroelettrici a carattere industriale, ai quali vanno aggiunti 1.588 minicentrali idroelettriche, costruite cioè sfruttando acqua corrente e senza l'innalzamento di dighe. Alle nostre latitudini risulta invece meno sfruttata l'energia solare per la quale sono previsti finanziamenti regionali e statali che, nel 2002, hanno permesso di installare 5mila nuovi tetti solari. Il vento, dal canto suo, risulta oggi particolarmente sfruttato ad esempio sugli Appennini dove le enormi pale dei mulini girano a inquinamento zero, ma con lo svantaggio di non poter modulare l'offerta sulla base della domanda.
Infine l'ultima frontiera di cui tanto si parla è costituita dalla "produzione distribuita", vale a dire mini centrali costruite localmente o, addirittura, a livello di azienda o di utenze domestiche.
Fanno parte di questo capitolo i micro-cogeneratori, piccolissime centrali alimentate a gas che possono garantire oltre all'energia elettrica anche l'acqua calda e il condizionamento termico degli ambienti. La loro installazione potrebbe far diventare di fatto totalmente indipendenti dalla rete di distribuzione nazionale, soprattutto nel caso di nuovi insediamenti urbani, grandi complessi abitativi o strutture pubbliche come università e ospedali, ma anche aziende di una certa grandezza. Il risultato porterebbe a un minor ricorso a centrali tradizionali, un po' come è accaduto, a livello micro, con l'installazione degli impianti di riscaldamento autonomo nelle abitazioni, una soluzione che ha di fatto supplito alla mancata realizzazione del teleriscaldamento, ritenuto il sistema più efficace dal punto di vista sia energetico, sia economico, sia ambientale (con, però, i rischi relativi, in caso di guasto). Ci si domanda, peraltro, se le piccole centrali siano la soluzione ottimale o non invece "apparente". E' fuori di dubbio, infatti, che esse hanno il vantaggio di essere poco "apparenti" a motivo delle ridotte dimensioni e, quindi, di dare luogo ad uno scarso impatto, ma è noto che, sempre sotto il profilo ambientale, l'inquinamento relativo prodotto da una molteplicità di piccoli impianti è superiore a quello di un unico grande impianto.

09/25/2003

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