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Fondazioni Bancarie, incendio nella "foresta di pietra"

Con la Finanziaria 2001 definito un nuovo assetto delle Fondazioni Bancarie. Con roventi opposizioni prima e strascichi polemici poi.

Può una foresta di pietra incendiarsi? Sì, ed è proprio ciò che è accaduto nel mondo bancario - quel mondo così sempre uguale a sé stesso da essere stato definito una "foresta di pietra" - nelle ultime settimane del 2001. Motivo? Un emendamento introdotto dal Ministro dell'Economia Tremonti nel disegno di legge finanziaria all'esame del Parlamento. Un blitz, secondo alcuni. Una furbata, per altri, perché ha consentito di far approvare in breve tempo e in maniera blindata una riforma che, altrimenti, avrebbe rischiato di non andare in porto per via delle potenti lobby che un settore come quello del credito è in grado di mettere in campo. La materia del contendere è stata l'assetto delle Fondazioni Bancarie, enti privati che rivestono - ma ancora per poco, perché il blitz di Tremonti è riuscito - una duplice veste. Da un alto, quella di soggetti che, possedendo un patrimonio proprio e partecipando al capitale delle banche, ottengono enormi rendimenti che provvedono a distribuire sotto forma di sovvenzioni ad attività di filantropia, cultura, recupero di beni ambientali e artistici e altro ancora. Dall'altro, proprio in virtù delle partecipazioni possedute, esercitano di fatto un controllo forte sul sistema creditizio: per la precisione, su 22 banche presenti in Italia.
Una decina di anni or sono due Ministri del Tesoro, prima Giuliano Amato, poi Carlo Azeglio Ciampi, avevano avviato una riforma del settore ispirata al principio della separazione tra attività di beneficienza e partecipazione alla gestione delle banche. E in ottemperanza alle disposizioni di allora, le Fondazioni Bancarie stavano modificando il proprio comportamento a cominciare dall'approvazione di nuovi statuti.
Per Tremonti, tuttavia, la riforma Amato-Ciampi non è stata sufficiente e sulla scorta proprio dello slogan "dividere l'etica dal mercato" ha progettato nuove soluzioni più radicali destinate, in realtà, non solo e non tanto a relegare le Fondazioni Bancarie nel campo esclusivo della beneficenza, ma a ridisegnare l'assetto del sistema creditizio italiano. Infatti, gli sconvolgimenti che la riforma determinerà nella composizione della governance delle Fondazioni e l'obbligo di cedere le partecipazioni nelle banche entro il 2006 - obbligo preceduto, nelle more, da quello di collocare le azioni presso una Sgr - Società di gestione del risparmio, una sorta di interfaccia tra le prime e le seconde, sottoposta al controllo del Ministero dell'Economia e della Banca d'Italia - avranno grandi ripercussioni negli equilibri tra le istituzioni finanziarie del nostro Paese.
Inevitabile la levata di scudi, immaginabile peraltro la durezza delle reazioni e l'alta temperatura del dibattito che si è acceso sul tema. Un temperatura che si è andata riscaldando giorno dopo giorno fino ad evidenziare un vero e proprio incendio nella "foresta di pietra". Tutti - o quasi - i rappresentanti delle Fondazioni hanno espresso posizioni nettamente contrarie. Per tutti, Giuseppe Guzzetti, Presidente dell'Acri, l'Associazione delle Casse di Risparmio Italiane, che è altresì Presidente della Fondazione Cariplo, la più importante tra le 89 Fondazioni Bancarie italiane, le quali nell'insieme detengono un patrimonio di oltre 35 miliardi di euro (circa 68 mila miliardi di lire) e, grazie ad un rendimento medio del 5,5%, erogano qualcosa come 687 milioni di euro, pari a circa 1.330 miliardi di lire.
Separare le attività di beneficenza dalla gestione delle banche significa, secondo i sostenitori dell'emendamento Tremonti, far fare al nostro sistema del credito un salto di qualità sulla via dell'autonomia e della modernizzazione. Significa mettere le banche nelle condizioni di affrancarsi da pressioni esterne, talvolta o spesso estranee alla logica del mercato. Significa che i danari verranno d'ora in poi prestati a chi veramente li merita e non a chi può fare affidamento su amicizie altolocate. Il conto economico sarà l'unica discriminante e ciò consentirà al sistema creditizio di svolgere finalmente appieno il proprio ruolo di motore dello sviluppo. Le Fondazioni Bancarie, dal canto loro, affermano che l'obbligo di cedere del tutto le attività bancarie farà sì che il nostro sistema creditizio finirà per essere consegnato alle grandi banche estere e, in tal modo, anche il nostro sistema produttivo andrà incontro ad un destino di colonizzazione.
Altra questione. L'emendamento Tremonti ha sancito che i consigli di amministrazione delle Fondazioni Bancarie dovranno avere una "prevalente e qualificata" presenza di rappresentanti di enti locali (regioni, province, comuni). L'idea è quella di trasformare le Fondazioni da soggetti auto-referenti in enti che devono tenere conto, nelle decisioni riguardanti la distribuzione delle loro risorse - delle indicazioni provenienti dal territorio. Le Fondazioni controbattono che, in tal modo, esse si troveranno assoggettate alla politica e che ciò rappresenta un passo indietro rispetto alla riforma Amato-Ciampi. Tanto più che, proprio in omaggio a quella riforma, i consigli di amministrazione delle Fondazioni sono già attualmente composti per il 30% da esponenti indicati da enti locali, per quasi il 10% da rappresentanti delle Camere di Commercio e per quasi il 50% da espressioni della società civile: personalità della cultura della scienza, del volontariato, dell'ambientalismo, dell'università. Ed è proprio su questo punto che emergono le maggiori perplessità di questa riforma, peraltro ispirata da ragioni condivisibili. Infatti, la mano della politica sulle Fondazioni Bancarie fa temere il tentativo di appropriarsi delle ingenti risorse economiche - fin qui destinate ad opere di beneficenza, per sostenere cioè attività ed opere che il settore pubblico trascurava o non era in grado di supportare - per dirottarle verso opere pubbliche che gli enti locali hanno sempre maggiore difficoltà a finanziare in conseguenza dei continui tagli ai trasferimenti da parte dello Stato. Se così sarà, allora vorrà dire che si sarà deciso di abbassare la guardia sul fronte della riqualificazione della spesa pubblica e non sarà una buona cosa. Significherà in altri termini che, a parità di spesa nel settore pubblico, per realizzare una tangenziale o un tratto di autostrada, si attingerà alle risorse delle Fondazioni, che non potranno così più sostenere, come in passato, le molteplici attività no-profit che tutti ci riconoscono come una delle migliori qualità del nostro essere italiani. Il pericolo, cioè, è che la spesa pubblica arrivi a mangiarsi tutto. Anche ciò che è patrimonio di enti "privati" come le Fondazioni Bancarie. Il pericolo è reale. In Parlamento, sull'emendamento della maggioranza l'opposizione è stata morbida. E ha ottenuto l'esenzione dall'obbligo di includere i rappresentanti degli enti locali nei consigli di amministrazione per quelle Fondazioni che sono costituite in forma di associazione, in pratica quelle presenti nelle regioni del Centro (politicamente controllato dalle forze di opposizione), che già per antica tradizione hanno un significativo riferimento nelle istituzioni del territorio. Il sospetto di un tentativo di riappropriazione delle Fondazioni Bancarie da parte della politica non sembra proprio fuori luogo.

01/18/2002

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