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La competitività frenata

La competitività di un sistema-paese è composta da molteplici fattori: la competitività delle imprese e la competitività del sistema ambientale circostante. In Italia questi sistemi sembrano aver preso strade differenti: bisogna ritrovare la via che riporti il Paese alla piena competitività.


L'espansione del prodotto interno lordo dei dodici paesi dell'euro è stata, tra il 2000 e il 2004, del 5,1%. Dal 2000, in Italia l'aumento annuo è risultato in media inferiore all'1%. Così anche l'incremento dei consumi. Lo afferma il rapporto annuale della Banca d'Italia.
Negli ultimi anni la crescita del PIL in Italia è stata inferiore alla media di tutta l'area euro; l'inflazione è stata più elevata; il deficit strutturale è significativo; il debito lordo resta ben al di sopra del 100% del PIL. Lo afferma l'OCSE.
Nel 2004 l'Italia è stata sorpassata nell'indice di competitività da Sud Africa e Cina ed è stabilmente preceduta da Corea, Singapore, Hong Kong, Repubblica Ceca, Cile e Tunisia. Inoltre, dal 2002 al 2004 l'Italia è risultata ultima tra i paesi industrializzati (nel 2004 è 47esima su 104 paesi). Lo dimostra il Growth Competitiveness Index, del World Economic Forum.
Si potrebbero elencare altri studi, altre analisi, ma difficilmente ne troveremmo uno che dice: l'Italia cresce senza problemi. La realtà è che l'Italia soffre di competitività. Il PIL che non cresce, certo, è il dato più eclatante, quello più facile da ricordare. Ma la competitività di un sistema economico è fatta di molti altri elementi che, se non convergono, rischiano di portare il Paese su un sentiero troppo impervio. La competitività di un sistema è composta da molteplici fattori, strutturati essenzialmente in due livelli di analisi: la competitività delle imprese, ossia tutto ciò che concorre a determinare la loro produttività e la competitività del sistema ambientale circostante, ossia l'insieme di elementi come la diffusione di tecnologia, la dotazione infrastrutturale, la burocrazia, il grado di libertà economica.
In Italia la produzione industriale ristagna da quattro anni. In nessun altro paese europeo si è registrata una così accentuata e prolungata contrazione della produzione industriale. Negli ultimi cinque anni la produttività del lavoro, misurata dal valore aggiunto per addetto, è cresciuta nell'industria ad un tasso medio annuo dello 0,3%, in continua decelerazione rispetto al quadriennio precedente (+0,7%) e in controtendenza con quanto osservato nelle principali economie europee, dove la dinamica della produttività è tornata a crescere a tassi compresi fra il 2,5% della Spagna e il 4,7% del Regno Unito. Anche il costo del lavoro influisce negativamente sulla competitività delle imprese: tra il 1999 e il 2004 il costo del lavoro per unità di prodotto nell'industria è in media cresciuto del 3,1% all'anno, mentre nei cinque anni precedenti cresceva dell'1,8%. Inoltre, nella media dei paesi UE, il livello del costo del lavoro orario per addetto nel settore manifatturiero è circa il triplo di quello nelle nuove economie industrializzate dell'Asia e supera di circa nove volte quello del Brasile e del Messico. Oltre a tutti i fattori appena descritti, incide negativamente sulla competitività del sistema delle imprese italiane e sul lavoro anche il carico fiscale. L'Italia ha seguito in ritardo il trend in diminuzione delle aliquote e solo a partire del 1998 ha intrapreso una politica di riduzione della pressione fiscale sui redditi societari. Nel 2004 è entrata in vigore la nuova imposta sui redditi societari (IRES) che ha portato l'aliquota dal 34% al 33%: un'aliquota che rimane tuttavia la più elevata tra i paesi europei, dopo la Germania. A tutto ciò va aggiunto che l'Italia si posiziona tra i paesi con la più sensibile differenza tra il costo del lavoro (per le imprese) e la retribuzione netta (per il lavoratore): fatta 100 la retribuzione netta, un'impresa italiana deve sostenere un costo di 183, tra ritenute fiscali e contributi previdenziali.
Il capitale umano è fattore determinante nella competitività, non solo per le imprese, ma per l'intero sistema-paese. In Italia la qualità di tale fattore ha ancora molti spazi di crescita: solo il 7% della popolazione compresa tra i 55 e i 64 anni vanta un titolo universitario e rimane basso anche il numero di laureati tra i giovani. Nel 2002 solo il 12% della popolazione tra i 25 e i 34 anni risultava aver conseguito una laurea. L'Italia è, con l'Olanda, il paese dell'Unione Europea con il più basso numero di laureati in materie scientifiche e tecnologiche. Il problema principale è che il sistema universitario risulta debole nell'attrarre studenti dall'estero e nell'incentivare la ricerca. Il problema della qualità delle risorse umane richiama inevitabilmente un altro problema: gli investimenti in ricerca. L'investimento in conoscenza dell'Italia è tra i più bassi dei paesi OCSE e non ha registrato alcun sostanziale miglioramento dal 1992. Secondo i dati più recenti, nel 2003 la spesa totale per ricerca e sviluppo, in percentuale del PIL, è in Italia dell'1,1%, mentre la media europea si attesta intorno al 2%, contro il 2,6% degli Stati Uniti e il 3,1% del Giappone. L'Italia è in ritardo sul piano dell'innovazione, l'investimento in Information and Communication Technology è circa il 50% sul totale di quanto speso da USA (e ciò non stupisce, viste le dimensioni di quell'economia) o dalla Svezia (che ha un'economia più simile a quella italiana).
Anche l'eccessiva burocrazia contribuisce a rendere il sistema più rigido ed ingessato. Il mercato dei prodotti italiani rimane quello con il grado più elevato di rigidità della regolamentazione e quello in cui i tempi ed i costi necessari per l'avvio di una nuova impresa sono decisamente più elevati rispetto a quanto si registra nei paesi europei nostri vicini.
Il settore delle utilities, inoltre, è di fondamentale importanza per tutta la sfera produttiva, sia per quanto riguarda la disponibilità di energia che per l'adeguatezza delle tariffe. L'Italia si trova agli ultimi posti in classifica per tutti questi indicatori, in particolare nel campo della produzione di energia dove si trova al penultimo posto, davanti solo alla Grecia. Tale posizione si riflette anche nel prezzo della stessa energia per usi industriali: il prezzo praticato dall'Italia è il secondo più elevato a livello mondiale, dopo il Giappone. Fondamentale, per la competitività, è anche la presenza di una rete infrastrutturale efficiente. E in questo campo l'Italia lascia molto a desiderare. Si pensi che negli ultimi 25 anni il nostro paese ha aumentato dell'89% la sua capacità di produrre ricchezza e risorse economiche in termini di PIL, del 30% gli investimenti fissi lordi, ma ha ridotto del 16,2% gli investimenti infrastrutturali. La presenza di snodi che garantiscano l'accesso ai grandi assi o corridoi multimodali transeuropei è fattore discriminante nelle scelte localizzative, a scala europea o nazionale. Nel campo dei trasporti internazionali l'Italia beneficia di vantaggi strategici: la collocazione geografica ne fa una naturale, grande piattaforma logistica proiettata nel Mediterraneo. Tuttavia, risultano assolutamente necessari alti investimenti per ammodernare e potenziare la rete infrastrutturale. Altrimenti l'Italia rischia l'isolamento dalle grandi direttrici europee.
Sono sistemi molto complessi, quelli che determinano la competitività di un paese. Questi sistemi sembrano entrati in crisi, sembrano non lavorare più bene, sembrano aver preso strade sbagliate. Bisogna quindi ritrovare la via che riporti l'intero sistema alla piena competitività.

06/17/2005

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